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Gianluca Matarrese • Regista di GEN_

“Genitorialità e identità di genere sono temi universali che rischiano la strumentalizzazione”

di 

- Il regista ci parla del suo documentario sul medico milanese che assiste i pazienti nei difficili percorsi della fecondazione assistita e l'affermazione di genere

Gianluca Matarrese • Regista di GEN_

Presentato al Sundance Film Festival, unico italiano in concorso, e ora nelle sale del Paese dal 27 marzo con Barz and Hippo, GEN_ [+leggi anche:
recensione
intervista: Gianluca Matarrese
scheda film
]
di Gianluca Matarrese ha come protagonista assoluto il dottor Maurizio Bini che all’ospedale Niguarda di Milano è il responsabile della struttura Diagnosi e Terapia della Sterilità e Crioconservazione dal 1995. Con il regista abbiamo parlato di empatia tra medico e paziente, sogni e le lotte di chi si sottopone alla fecondazione assistita e di chi desidera riconciliare il proprio corpo con la propria identità di genere.

Cineuropa: Come ha conosciuto questo medico dalla straordinaria umanità?
Gianluca Matarrese:
I film documentari sono sempre degli incontri. Quello con il dottor Bini è avvenuto tramite Donatella Della Ratta, che insegna al dipartimento di Media Studies della John Cabot University di Roma, che sta scrivendo un libro sulla storia sociale e la politica economica dell'ormone nella fertilizzazione in vitro e nel gender assignment. Lei conosce le tematiche che esploro e mi ha detto: vieni con me, qui c’è materiale per un film. Questo personaggio è unico nel suo genere, siamo rimasti per un anno da osservare l'attività del dottor Bini. 

A che genere di “materiale umano” è più interessato nella sua esplorazione?
In questo caso è una finestra sul mondo, quella che ci si è aperta: la sedia in cui si siedono i pazienti in quell'ambulatorio. Quella che Bini chiama varietà umana. È questo ciò di cui parlo. Con la camera sono rimasto al bordo di questo spazio di comfort, lo spazio tra paziente e medico, osservando questa medicina di frontiera senza interferire e senza essere intrusivo.

Per non interferire che genere di sguardo ha adottato e che tecniche ha utilizzato?
Ho usato le ottiche per filmare, la camera era inserita nella libreria, non era una telecamera nascosta. Non ho utilizzato un tecnico del suono e non ho agganciato microfoni sulle persone, ho integrato i microfoni all'interno dello spazio prima che cominciassero le consultazioni. Non c’era del voyeurismo ma osservazione: intimità, desideri, bisogni umani, necessità.

I pazienti erano dunque perfettamente consapevoli di raccontarsi anche alla sua camera?
Parlavamo prima con i pazienti spiegando le intenzioni del progetto ed è stato molto sorprendente vedere come le persone abbiano voluto per motivi diversi condividere la loro intimità. C'è chi lo ha fatto per mostrare ad altri il percorso che stava facendo in quel momento, c’erano anche militanti e attivisti.  È un film che si basa sul legame di fiducia tra i pazienti, il dotto Bini e noi.

Il documentario solleva dilemmi etici. Non si vede gente contraria a queste pratiche che protesta fuori dall’ospedale, ma ci sono diversi punti di vista.
Cinéma vérité è osservare quello che cade, non provocarlo. Io non ho cercato manifestanti. Ma in quell’ambulatorio c'è anche l'opposizione, abbiamo dei genitori che si oppongono, come viene raccontato dai figli e o dai dottori, ci sono pazienti che hanno dubbi etici e religiosi, la paziente che non vuole congelare i suoi embrioni perché per lei sono vita.  Ovviamente questo è un dispositivo, ma che non dimentica nessuno, ci sono anche i punti di vista di coloro che sono coinvolti in percorsi estremi e che non sono equilibrati nei confronti del bisogno reale. Ci sono comunità trans e gay che si oppongono all’assistenza dei medici, ma l’accompagnamento medico è essenziale ed è un bene che il servizio pubblico si faccia carico di questi percorsi.

In alcuni Paesi, come gli Stati Uniti, i leader stanno smantellando le strutture di supporto, azzerando le tutele per le comunità Lgbtq+, riscrivendo la definizione di uguaglianza.
Gli inizi di questo film sono stati in America, abbiamo avuto la prima al Sundance e delle proiezioni al Moma di New York, e per gli statunitensi questa è fantascienza. Molti mi hanno chiesto se questo fosse un film militante, ma io rispondo che non giro film per fare politica. La realtà in cui viviamo è politica, l’intimità è politica, quello che fa il dottor Bini è politica, non possiamo ignorarlo. Il messaggio evidente veicolato da questo film è che in Paese come l’Italia, nonostante le frizioni e le opposizioni politiche, esiste un luogo come questo, che si prende carico dell’individuo e che dà un esempio di speranza per tutto il mondo. Rispetto ad altre società in cui ci si fa carico solo di chi ha il denaro o è influente. Queste tematiche spesso vengono spettacolarizzate e strumentalizzate dalla politica. Con questo film si vuole normalizzare il paziente che adotta queste procedure mediche. Ci si connette al film e ai temi della genitorialità e identità di genere semplicemente perché sono universali.

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