Guido Chiesa • Regista di Per amore di una donna
“Questa donna che non sa nulla del suo passato è un po' come noi che non sappiamo nulla di quel mondo lì”
- Parliamo con il regista del suo ultimo film, molto diverso da quelli a cui ci ha abituati negli ultimi anni, ambientato in Israele, girato in lingua inglese e con un cast internazionale

Anni ’70. Una donna americana va in Israele alla scoperta di un segreto che riguarda il suo passato. La sua strada incrocia quella di un uomo cresciuto con tre padri in un villaggio di coloni nella Palestina degli anni ’30. Tratto dall’omonimo romanzo di Meir Shalev, il nuovo film di Guido Chiesa, Per amore di una donna [+leggi anche:
intervista: Guido Chiesa
scheda film], ricostruisce fra presente e passato il filo invisibile che lega questi due personaggi a un’altra donna, che quando nel 1935 arrivò in quel villaggio sconvolse la vita di tutti. Abbiamo parlato con il regista al 16mo Bif&st di Bari, dove il film è stato selezionato nel Concorso per il cinema italiano.
Cineuropa: Questo film si discosta parecchio dalla sua produzione più recente, formata soprattutto da commedie. Come le è arrivata questa storia?
Guido Chiesa: Devo dire che ho cominciato a fare commedie un po’ per caso. È andata bene e da quel momento è diventato difficile fare qualcos’altro. Il vecchio capo della Colorado, Maurizio Totti, aveva questo progetto nel cassetto da tanto tempo, all’inizio voleva farlo Gabriele Salvatores, parliamo di vent’anni fa. Quindi, sapendo che io volevo fare anche un altro tipo di film, a un certo punto Maurizio mi ha detto: “Guarda, questo è un romanzo che noi vorremmo adattare ma non ci siamo riusciti. Magari a te viene l'idea”. L'ho letto ed è un romanzo folle, un po’ come Cent'anni di solitudine, vi si raccontano varie storie, si passa dal passato al presente in maniera un po' caotica. Però poi con mia moglie, con cui scrivo, ci è venuta un'idea che ci ha permesso di avvicinarci a questa materia con uno sguardo esterno. La storia di Esther, la donna americana che riceve la lettera dalla madre ce la siamo inventata noi. E questa donna che non sa nulla del suo passato, anche perché la parte più importante le è stata negata, è un po' come noi che non sappiamo nulla di quel mondo lì. Dopo la Prima guerra mondiale la Palestina passò ai britannici e iniziò questo esodo di ebrei verso quella terra con l'idea di fondare un mondo nuovo, una società più solidale, egalitaria. Erano quasi tutti giovani, molto colti peraltro, e il rapporto uomo-donna era molto poco comune all'Europa.
Stupisce infatti l’apertura mentale di quella società, per quell’epoca. Il momento in cui si crea questo ménage à quatre viene raccontato come un periodo felice per tutti, non c’è rivalità tra questi uomini e la protagonista è una donna che è impossibile sottomettere.
Questa è una cosa che ancora adesso si riscontra nella società israeliana: le donne sono molto toste. Il racconto del passato è il racconto che fa Zayde, che era un bambino e quindi vive il tutto un po' come una leggenda. Poi invece si ritrova negli anni Settanta e le cose sono diverse, c'è la guerra, c'è un conflitto permanente e la sua storia personale è quella di un uomo che non riesce ad amare, che vive troppo legato a questo passato.
I due binari narrativi che porta avanti nel film sono molto distinti anche dal punto di vista visivo: sembrano due film diversi. Qual era l’idea di base?
Volevamo che gli anni ‘30 fossero raccontati come una favola, quindi con colori sgargianti, il verde della campagna e il montaggio molto lento. Invece, negli anni ‘70 la fotografia è decolorata, i vestiti vanno sul grigio, sul marrone e anche il montaggio è più nervoso. Poi si va avanti e le parti finiscono per invertirsi: anche nel presente possiamo vivere questa leggenda se incontriamo l'amore che ci salva. Non è necessariamente l'amore tra un uomo e una donna, può essere anche tra fratelli, ma per incontrare l'amore devi incontrare la verità su chi tu sei veramente.
Riguardo al tono del film, è una storia molto intensa, a tratti drammatica, però poi attorno al personaggio di Yehudit si viene anche a creare una sorta di saga amorosa che alleggerisce il tutto.
Questo è tipico della cultura ebraica e c'è anche nel romanzo. Quello che posso aggiungere è che il fatto di aver lavorato tanti anni sulle commedie mi ha dato il piacere di fare film pensando a far star bene il pubblico e quindi non aver paura di usare anche un tono spiritoso, e neanche aver paura del melodramma. La storia della leucemia nel libro non c’è, mi chiedono perché l’abbia inserita. Io dico perché no? È un modo per agganciare l'emozione del pubblico. Io ormai desidero questo: fare un cinema che emozioni più che lanci dei messaggi, e che al contempo coinvolga lo spettatore nel processo di creazione del film: lo spettatore qui deve partecipare per seguire la storia.
Per amore di una donna ha una storia avvincente, è in lingua inglese e ha un cast internazionale. È stato già venduto all’estero?
Per ora il film ha ricevuto molti no da distributori e festival, inclusa la Berlinale, per il fatto che è ambientato in Israele e per timore di manifestazioni contro il film. Ma con Fandango sembra aver trovato una sua piccola strada, verrà distribuito in Italia o subito prima o subito dopo l’estate, e poi speriamo anche fuori.
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