Ivano De Matteo • Regista di Una figlia
“Tutti siamo potenziali vittime o carnefici di queste storie che raccontiamo”
- Il regista ci spiega perché è ancora una volta la famiglia il serbatoio da cui ha attinto per il suo nuovo film, in cui una 16enne come tante commette un reato gravissimo

Il regista Ivano De Matteo torna a scandagliare rapporti familiari in situazioni estreme nel suo nuovo film, Una figlia [+leggi anche:
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intervista: Ivano De Matteo
scheda film]. Ne abbiamo parlato con lui in occasione dell’uscita del film nelle sale il 24 aprile, dopo la prima mondiale al 16mo Bif&st di Bari.
Cineuropa: Questo è il suo terzo film che racconta storie di figli adolescenti che un genitore preferirebbe non ascoltare. Che cosa spinge lei e la sua sodale co-sceneggiatrice Valentina Ferlan a trattare questi temi e a voler sempre scuotere lo spettatore?
Ivano De Matteo: Raccontare una storia che tutti vogliono sentirsi dire sarebbe come lo specchio di Biancaneve. Già siamo presi abbastanza in giro tutti i giorni dai social, dove cancelliamo quello che non ci sta bene e lasciamo solo i commenti che ci piacciono. A me ogni tanto serve qualcuno che mi sbatta in faccia un po' di realtà. Quando Valentina ed io scriviamo, principalmente partiamo con la paura che ciò che trattiamo nei nostri film possa accadere a noi. Non avevamo pensato a una trilogia. Sono film che trattano più o meno lo stesso argomento, ma da prospettive diverse, e con questo andiamo a chiuderla. Una figlia è più vicino a I nostri ragazzi [+leggi anche:
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scheda film] che non a Mia [+leggi anche:
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scheda film], è una sorta di sequel, racconta il dopo, il carcere minorile. Inoltre, volevamo raccontare la famiglia del “cattivo”. Mia in qualche modo era più facile, lei era la vittima e quindi tu empatizzavi di più. In Una figlia abbiamo cercato di scardinare ancora di più le nostre sicurezze.
La sceneggiatura è liberamente ispirata a un libro, Qualunque cosa accada di Ciro Noja.
Il libro è stato lo spunto di un qualcosa che volevamo raccontare da quando ascoltammo l'intervista del papà di Erika [la ragazza che con il suo fidanzato Omar uccisero la madre e il fratellino di lei a Novi Ligure nel 2001, ndr], l'intervista in cui lui diceva che Erika “rimane sempre mia figlia”. Dopodiché mi è stato proposto questo libro che ricordava molto quella storia. Però nel libro la protagonista è molto più violenta, noi invece siamo partiti da un reato che può commettere chiunque. Tutti siamo potenziali vittime o carnefici di queste storie che raccontiamo. Poi c’è stato un grosso lavoro sulla parte tecnica. C’è tutta la legislazione, le regole, le parole dell’universo carcerario minorile, quello femminile in particolare. Siamo entrati in un mondo veramente parallelo. Sono esattamente due punti di vista: uno è il punto di vista del papà, e poi c'è il percorso d'inferno che va ad affrontare questa ragazza di 16 anni.
A livello di messa in scena, come si è approcciato a questi due filoni del racconto?
Quello della ragazza è tutto il percorso che parte dal commissariato per arrivare al centro di accoglienza, poi al carcere e infine alla comunità. Per quanto riguarda la parte interna al carcere, non salvo e non demonizzo. Cerco di mantenere il rispetto delle persone che stanno vivendo una parte della loro vita segregate lì dentro. Ho cercato di mantenere l’obiettivo stretto sulla faccia della ragazza, ho lavorato molto sui rumori. Perché nel carcere la cosa che fa impressione sono i rumori ripetitivi dei ferri e dei catenacci. Dalla parte del padre, cerco di trasmettere quel senso di solitudine: parla solo con l'avvocato. Immagino che una situazione del genere sia un incubo. Lui cerca una strada, forse la trova, ne prova una, poi cambia, diciamo che switcha sempre. Ecco, questa è una cosa che facciamo in tutti i nostri film, switchare rispetto a ciò che tu ti aspetti.
Questo film esce in un momento in cui casi di cronaca recenti ci parlano di crimini commessi da adolescenti, sempre più frequenti, e in cui ci si interroga sul ruolo dei genitori.
È chiaro che tu, genitore, sei il primo capro espiatorio perché sei tu che gestisci questi ragazzi. Io credo che in linea di massima un genitore cerchi di fare del bene a suo figlio, di dargli dei consigli. Ma oltre ai genitori, c’è un altro tipo di educazione che è quella che viene dalla strada, dalla scuola, dallo sport, dagli amici. Non credo che ci sia una regola. Io ho sempre detto che, con tutta l'educazione che gli ho dato, non posso mettere una mano sul fuoco che un giorno mio figlio non faccia una grossa cazzata. Noi, in questo film, lavoriamo sulla riparazione, che è un termine tecnico che si usa nelle carceri minorili. Cioè riparare qualcosa che è rotto, per gli altri ma soprattutto che è rotto dentro te stesso, è una messa alla prova. Un tema di cui non si parla molto.
Il suo produttore Marco Poccioni ha detto che lei sarebbe un regista che meglio di altri potrebbe rifare la commedia all’italiana degli anni '60-'70, avrebbe lo sguardo giusto.
Poccioni mi vuole bene [ride]. Sì, la stiamo scrivendo, è una cosa che serve a noi per depurarci. È stata proprio Valentina che mi ha detto: basta con questi film angoscianti. Perché diventa pesante, con tutte le ricerche che facciamo, le problematiche che ci portiamo a casa. Ecco, ora stiamo scrivendo una commedia amara, una sorta di satira di costume. È in fase embrionale, abbiamo 20 pagine di soggetto. Diciamo che con questi temi familiari per ora ci siamo presi una pausa.
Come per Mia, è previsto un percorso nelle scuole per Una figlia?
La Rai proporrà il film alle scuole. E io, per chi accetterà, farò lo stesso percorso. Perché quella è stata una parte molto importante, con Mia ho incontrato più di 15.000 ragazzi, ancora oggi vado nelle scuole a presentarlo, dopo due anni. Io credo che i ragazzi abbiano bisogno di guardare cose vere, non ritoccate, perché se edulcori le cose fai più danni, non li prepari alla realtà.
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