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ANNECY 2025

Giovanni Columbu • Regista di Balentes

“Non ci si può affidare solo alla parole, bisogna disporsi anche in una posizione di ascolto delle emozioni e della materia"

di 

- Il regista sardo parla del suo ultimo film d’animazione, la cui realizzazione è durata sette anni

Giovanni Columbu • Regista di Balentes

Dopo essere stato presentato ai festival di Rotterdam e di Pesaro e dopo una breve uscita nelle sale italiane, Balentes [+leggi anche:
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intervista: Giovanni Columbu
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ha fatto parte del Festival di Annecy nella sezione Contrechamp. Abbiamo incontrato il regista sardo Giovanni Columbu per parlare del suo film, la storia di due amici ribelli nella Sardegna degli anni ‘40.

Cineuropa: Partiamo dalla genesi di Balentes e di come mai hai scelto di passare all’animazione.
Giovanni Columbu:
All'origine di questo passaggio a una forma diversa di espressione, c'è stato un momento critico che io ho vissuto a seguito di Su Re. Dopo il film sul Vangelo, io ho passato circa due anni in cui ho vissuto vendendo tutto quello che potevo vendere, perché Su Re mi aveva lasciato dei debiti. Il gallerista e collezionista di opere d'arte a cui avevo venduto diverse cose si era accorto che io avevo su un tavolo dei disegni che avevo realizzato prima ancora di venire in Sardegna, quando vivevo ancora a Milano, gli sono piaciuti e me li ha comprati in blocco. Questo episodio mi ha richiamato a quella che era la mia prima passione, la passione che ha preceduto il cinema, quella per la pittura. Inoltre quando ho inviato la sceneggiatura di Balentes per ricevere un piccolo contributo dal ministero ho allegato dei disegni che sono piaciuti molto alla commissione giudicante. Queste due sono state le premesse per le quali mi sono sentito sollecitato a prendere in considerazione l'idea di un film disegnato, E anziché partire dallo stato di fatto dell'arte dell'animazione, sono tornato indietro di oltre un secolo, dal cinema degli esordi. In modo particolare dagli esperimenti compiuti dall'antropologo e fotografo inglese Eadweard Muybridge, il primo a scoprire i meccanismi che determinano un effetto di animazione dell'immagine. In sostanza fotografie scattate a breve distanza l'una dall'altra che messe in sequenza generano un effetto di movimento.

Come mai hai scelto di partire dall’origine del cinema? E quali sono state le tecniche che hai usato?
Non saprei, forse perché è un periodo che mi affascina e perché era anche più congeniale al mio percorso di pittore. Addirittura all'inizio della realizzazione di Balentes, quando fotografavo i disegni, li fotografavo a luce naturale. Questa passione per ricercare soluzioni antiche, che poi si rivelano anche modernissime mi ha aiutato nella ricerca estetica. Ad esempio durante la riproduzione dei disegni, che poteva durare una o due ore, la luce cambiava, e il risultato erano queste variazioni che pur in bianco e nero, introducevano una valenza cromatica molto interessante, Questo aspetto un po' primitivo della tecnica che io andavo mettendo a punto generava una serie di imperfezioni involontarie, che richiamavano i difetti della pellicola.

Quali sono le tue influenze pittoriche?
Mi sono ispirato alla pittura iperrealistica di cui avevo imparato la tecnica, che consiste in quello che viene chiamato un paradosso iconico, ovvero un il contrasto tra le superfici e i corpi delle figure che vengono generalmente realizzati con l'aerografo della pittura iperreale, e che dà luogo a delle vaporizzazioni di colore assolutamente prive di struttura interna, cioè il colore si diffonde come una nuvoletta che ha dei contorni che via via si sfumano. Questa vaporizzazione però viene arginata sui contorni della figura attraverso delle maschere che vengono appoggiate sulla carta o sulla tela, ed è così lì che si determina quell'effetto paradossale e questo contrasto tra una superficie plastica continua data dalla vaporizzazione e un profilo perfettamente netto. Lo sforzo maggiore è stato adottare questa tecnica all’animazione dove, le immagini devono poi essere messe a registro perché in maniera che non risultino sfasate. I disegni quindi dovevano essere allineati sia in fase di realizzazione che in fase di fotografia, e questo all’inizio ha prodotto molti errori. Ho capito che gli errori erano importanti, perché ogni errore in realtà ti suggerisce anche una diversa visione e aggiunge delle possibilità espressive.

Nel film però hai usato anche altri tratti distintivi come gli intertitoli…
Sì ho cercato di ricostruire una modalità del cinema mutuo, in cui non è possibile raccontare tutto, quindi alcune ellissi le ho riassunte con un cartello. Ovviamente anche con l’uso degli intertitoli c'è un problema di equilibrio, di usarli ma non in eccesso. Ma c'è anche un altro problema: quello della cosiddetta narrative art, che a volte presentava su un foglio una parola ma una parola che comunicava attraverso il duplice registro, quello del significato e quello della scrittura. Quindi i cartelli non sono soltanto delle spiegazioni ma anche degli elementi stilistici ed estetici che aiutino nella rivelazione del senso. Devono essere una chiave interpretativa ma non ci si può affidare solo alle parole, bisogna disporsi anche in una posizione di ascolto delle emozioni e della materia. Questa lezione mi fu data dallo scultore Costantino Nivola che mi disse che ogni pietra ha un proprio carattere e che va rispettato.

Sembra che Balentes possa iscriversi a una certa tradizione letteraria sarda infusa di tragicità, da Grazia Deledda a Salvatore Satta. Quest’ultimo scriveva la Sardegna come un’isola diabolicamente triste
Io credo che questa tristezza sia frutto della nostalgia, ma che sia un valore. Basti pensare a Ulisse e all’Odissea. Credo che i sardi siano esseri pervasi di nostalgia e che sappiano di dover convivere col mistero, ma questo è meraviglioso, per quanto comporti un'inquietudine e un disagio che noi chiamiamo tristezza. Recentemente durante un festival in Giappone mi è stato chiesto come mai io abbia fatto un film così triste e a me è venuta in mente la tristezza di Ikiru di Akira Kurosawa che riesce a descrivere la natura umana con una storia così tragica. Nel mio film, anche se Ventura muore in qualche modo, vive per sempre, soprattutto dal momento in cui la sua storia cessa di essere una storia da dimenticare e viene ricordata ancora oggi.

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