Valentina e Nicole Bertani • Registe di Le bambine
“Tra noi e la nostra sceneggiatrice si è creato un rapporto di sorellanza sfociato in una sceneggiatura che noi consideriamo non femminile ma femminista”
- Le due registe italiane ci parlano con un’allegria contagiosa delle motivazioni che le hanno spinte a raccontare una storia al contempo personale, quella della loro infanzia, e universale

Abbiamo incontrato Valentina e Nicole Bertani per parlare del loro film, Le bambine [+leggi anche:
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intervista: Valentina e Nicole Bertani
scheda film], selezionato in concorso al Locarno Film Festival. Le registe ci parlano del processo creativo che le ha accompagnate durante la creazione del loro primo lungometraggio in quanto duo ma anche del potere della sorellanza e di cosa ha significato crescere in quegli anni folli che sono stati gli anni 90.
Cineuropa: Come nasce l’idea del film e cosa vi affascina del mondo dell’infanzia e di quel periodo mitico che sono gli anni Novanta?
Nicole Bertani: Il film nasce da un’idea di Valentina. Si tratta di una storia autobiografica. Valentina mi ha telefonato chiedendomi di contribuire con il mio personale punto di vista. È cominciata così una prima fase di scrittura e poi, in un secondo momento, è stata coinvolta anche una sceneggiatrice, Maria Sole Limodio. Le bambine è stato un lungo viaggio, abbiamo lavorato un paio d’anni solo sulla scrittura. Quello che raccontiamo nel film è un periodo che abbiamo vissuto realmente, è la storia della nostra migliore amica, del momento in cui è entrata nella nostra via. All’epoca non capivamo perché non potevamo frequentare la casa di questa bambina, perché sua mamma fosse così diversa. Abbiamo deciso di raccontare questo mistero insieme.
Valentina Bertani: Io dico sempre che quando mi sono resa conto che la storia era interessante e poteva essere trasposta cinematograficamente e resa universale mi mancava quello che io chiamo il controcampo della mia infanzia, il punto di vista di Nicole e della mia migliore amica, Linda. Giocare da sola mi ha sempre annoiata e girare un film è la cosa più simile a giocare che possa immaginare. Questa storia l’abbiamo vissuta e raccontata insieme. Quando abbiamo cominciato il percorso di adattamento, di sceneggiatura, Maria Sole è diventata un po’ la terza bambina. Abbiamo cominciato a porci delle domande su quello che avevamo vissuto. Tra di noi si è creato un rapporto di sorellanza sfociato in una sceneggiatura che noi consideriamo non femminile ma femminista. Poi scrivendola ci siamo anche rese conto che effettivamente la storia raccontata e il contesto specifico nel quale si svolgeva, gli anni 90, i traumi vissuti dagli adulti di quel periodo, poteva diventare un racconto universale basato però su un’esperienza personale. Attualmente gli anni 90 sono diventati alla moda ma sono un po' svuotati del loro significato originale, per cui per il nostro film abbiamo provato ad essere il più aderenti possibili alla realtà così come l’abbiamo vissuta in prima persona.
Il vostro film mi ha fatto pensare a: Gummo (Harmony Korine), Kids (Larry Clark), Welcome to the Doll House (Todd Solondz), ma anche Courtney Love, Bikini Kill e tutto il movimento delle Riot grrrl e della scena rave. Quali riferimenti avevate davvero in testa per il film?
V.B.: Todd Solondz è la nostra referenza principale, è il padre della dark comedy come la intendiamo noi. E si tratta di qualcosa che in Italia manca. Siamo curiose di vedere come il pubblico, che non è abituato a questo genere di tono nei film italiani, reagirà. Per quanto riguarda il personaggio di Eva, assomiglia in effetti abbastanza a Courtney Love ma non l’abbiamo fatto di proposito, lei era veramente così.
Personalmente considero il vostro film come un’ode femminista e queer, un’utopia cinematografica che abbatte tutti i binarismi: uomini e donne, adulti e bambini, uomini e animali. Tutto ciò lo trasforma in un film militante dove niente è vietato. Siete d’accordo? Credete nel potere anticonvenzionale del cinema?
V.B.: Sono onorata da questa definizione che trovo molto giusta. Volevamo in effetti slegarci e liberarci dai binarismi e sono sicuramente d’accordo nel considerare il film come un’opera queer. Essendo io e la sceneggiatrice queer, era difficile, coscientemente o no, non fare un film queer. A proposito dei personaggi queer, il nostro babysitter dell’epoca si chiama davvero Carlino ed è molto simile al personaggio dipinto nel film.
N.B.: Eravamo super affezionate a lui. Era un uomo dichiaratamente gay già nel 97, che si vestiva con degli outfits tutti in jeans e i capelli ossigenati. Dichiararsi omosessuali adesso è molto diverso dagli anni 90 dove era considerata era una sorta di stigma. Si tratta di un periodo marcato dall’AIDS e c’è una sorta di malinconia, di tristezza che aleggiava nell’aria malgrado il carattere a tratti esuberante di Carlino.
Ho trovato molto interessante il modo in cui parlate della tossicodipendenza. Questo potrebbe scioccare in un film dove le protagoniste sono delle bambine, esseri spesso considerati come fragili, puri e ingenui.
V.B.: Hai colto un punto chiave del film. La prima volta che abbiamo esposto l’idea al creative director ci ha detto che droga e bambini non possono coabitare. La nostra risposta è stata che si trattava della nostra esperienza, del nostro vissuto e che non potevamo non parlarne anche se le protagoniste sono delle bambine. Perché censurarsi e storpiare la nostra realtà? La nostra infanzia è legata ad un momento storico preciso nel quale la droga faceva parte del mondo degli adulti. Da piccole non avevamo una consapevolezza totale di quello che stava succedendo attorno a noi ma ne eravamo comunque testimoni.
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