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Urška Djukić • Regista di La ragazza del coro

“C'era qualcosa nell'ascoltare le voci di queste giovani ragazze, sul punto di diventare donne, che mi sembrava incredibilmente importante”

di 

- La regista emergente approfondisce il contesto e i temi del suo film con protagonista un coro di ragazze slovene, uno dei debutti più impressionanti dell'anno

Urška Djukić • Regista di La ragazza del coro
(© Ela Mimi Pirnar)

Presentato all’inizio di quest’anno nella nuova sezione competitiva Perspectives di Berlino, La ragazza del coro [+leggi anche:
recensione
trailer
intervista: Urška Djukić
scheda film
]
di Urška Djukić si è aggiudicato solo il premio FIPRESCI, eppure sembrava incarnare alla perfezione la ragion d’essere di quella sezione, che celebra esordi solidi e di inclinazione artistica offrendo “prospettive” uniche sul nostro mondo. Siamo sommersi da film di formazione firmati da registi esordienti, eppure La ragazza del coro beneficia di temi e schemi visivi insolitamente ben sviluppati, seguendo un coro femminile cattolico sloveno in gita in Italia e la competitività e la crescente consapevolezza sessuale di due coriste – una timida ma risoluta, l’altra più provocatoria. Forte di un’ampia distribuzione internazionale in arrivo dopo il percorso festivaliero, il film esce questa settimana in sala nel Regno Unito e in Irlanda, una rarità per un titolo di questa regione.

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Cineuropa: Qual è stata l’ispirazione iniziale per la storia?
Urška Djukić:
È arrivata quando, per la prima volta, ho ascoltato un concerto di un coro femminile di una scuola cattolica. Le loro voci erano così potenti, così cariche di emozione che ho quasi pianto in quel momento. C'era qualcosa nell'ascoltare queste giovani ragazze, sul punto di diventare donne, che mi sembrava incredibilmente forte e importante, soprattutto sapendo quanto spesso le voci femminili siano state messe a tacere nel corso della storia. E ricordo di aver visto tre sacerdoti tra il pubblico, commossi quanto me, e l'intera situazione mi è sembrata insolita: uomini patriarcali e celibi che ascoltavano queste voci che irradiavano energia femminile. Quell’immagine era così enigmatica che ho capito di doverla indagare. Ho seguito quel coro per un po’ e l’ho osservato, e questo è diventato il seme della sceneggiatura.

Come avete costruito la struttura narrativa, vista attraverso le dinamiche di gruppo delle ragazze durante il loro viaggio?
È stato affascinante vedere come la storia sia scaturita dal luogo stesso. Quando abbiamo trovato il monastero delle Orsoline a Cividale del Friuli, dove poi abbiamo girato il film, ho avvertito subito una sorta di guida provenire da quel luogo. Lo spazio ha cominciato a raccontarmi una storia. Anche l’idea degli operai che ristrutturano il monastero viene direttamente dalla realtà: quando siamo arrivati, l’edificio era in pieno restauro. All’inizio pensavo che sarebbe stato impossibile girare con tutte quelle impalcature, rumori e trapani, ma poi ho capito che era perfetto: una metafora dell’abbattimento di strutture rigide e antiquate e della loro ricostruzione con nuova energia.

Il vigneto vicino al monastero ha ispirato anche una scena chiave. Mentre scrivevo, continuavo a notare l'uva verde e acerba. Un giorno, mi è venuto in mente: se la mangi, soffri davvero. È diventata una metafora dell’auto-punizione e del senso di colpa, e si è trasformata in quella scena giocosa ma centrale del film.

Il coro in sé è stata un’altra storia, perché abbiamo messo insieme un coro appositamente per il progetto. La maggior parte del tempo c’erano 30 ragazze sul set, il che è stato impegnativo da dirigere, dato che volevo filmare il canto in tempo reale per catturare la realtà del processo di prove di un coro.

Perché era importante mettere in relazione il racconto di formazione con l’esplorazione del cattolicesimo e della spiritualità? Si è ispirata ad alcuni dei grandi film sulla fede cattolica?
Crescendo, provavo una sorta di senso di colpa per i miei istinti ma non capivo davvero il perché. Sebbene la mia famiglia non fosse rigorosamente religiosa, mia madre mi ha cresciuta secondo le idee cattoliche tradizionali su ciò che una “brava ragazza” dovrebbe essere. Solo più tardi ho capito che queste idee, che riguardano il corpo e la sessualità, sono piuttosto rigide e goffe. A mio avviso, la nozione di sessualità peccaminosa e la generale mancanza di educazione in questo campo costituiscono un meccanismo sottile che isola una persona dalla propria fonte di potere. Le persone profondamente connesse al proprio corpo non sono facilmente influenzabili, poiché si fidano della propria guida intuitiva interiore più che delle influenze esterne. Nel film, Lucija [Jara Sofija Ostan] mette in discussione i propri sentimenti interiori, corporei, in contrasto con le norme e le aspettative sociali generali, e alla fine, attraverso un’esperienza trascendentale e catartica del proprio corpo, decide che cosa seguirà nella sua vita.

Che tipo di progetti intende sviluppare ora? E le interessa continuare a lavorare a livello internazionale?
Sì assolutamente, continuerò a collaborare a livello internazionale. Sto sviluppando un nuovo progetto, dal titolo provvisorio Veronika of Desenice. La storia è ambientata nel XV secolo in quella che oggi è la Slovenia – allora parte della monarchia asburgica – e si basa su una vera tragedia storica: il primo processo alle streghe documentato nella storia “slovena”. Segue la storia d’amore tra il conte Federico II di Celje e sua moglie Veronika, accusata di stregoneria dal potente suocero. Veronika trovò rifugio in un monastero certosino, dove sarebbe stata protetta da un monaco di nome Priore Arnold. Dunque, anche il mio secondo film sarà ambientato in un monastero, solo che questa volta sarà maschile.

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(Tradotto dall'inglese)

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