Ana Cristina Barragán • Regista di Hiedra
“L'edera è una pianta bella ma anche tossica; questa dualità mi interessava molto”
- VENEZIA 2025: La regista ecuadoriana ci spiega l'approccio sensoriale, il lavoro degli attori e le decisioni formali alla base del suo film

Abbiamo parlato con la regista ecuadoriana Ana Cristina Barragán di Hiedra [+leggi anche:
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intervista: Ana Cristina Barragán
scheda film], che si è aggiudicato il premio alla miglior sceneggiatura nella sezione Orizzonti della Mostra di Venezia. Un potente racconto su una giovane donna e un adolescente che si incontrano e affrontano i traumi e i dolori del passato.
Cineuropa: Nella presentazione del suo film dice che le piace l’ambiguità. Come è riuscita a restituire l’ambiguità in questa storia?
Ana Cristina Barragán: Da quando ho iniziato a scrivere questa storia, ho sentito che nasceva in modo diverso dalle precedenti. Veniva da un luogo più inconscio, più legato alle sensazioni. Appariva nei momenti in cui stavo per addormentarmi, o in quegli stati di coscienza confusi, come quando si è persi nei propri pensieri. Man mano che procedevo, il film si è trasformato molto. In effetti ho iniziato a scrivere questa storia prima di realizzare La piel pulpo, il mio secondo film, il che mi ha dato una nuova prospettiva quando sono tornata a lavorarci. Ciò che mi attrae di questo film, e che mi interessa esplorare anche nel mio cinema, è un’intimità non del tutto chiara e la ferita dell’infanzia. Non si tratta di spiegarla in modo esplicito, ma di renderla visibile in ciò che non si dice. Come spettatore puoi accedere solo a una parte di quella storia, ma dentro c’è molto di più.
Cita anche il concetto di intimità. Ci sono molti primi piani nel film, che non temono quella vicinanza. Ha immaginato la macchina da presa come un personaggio che si avvicina a quel mondo?
È un aspetto che ho esplorato anche nei miei lavori precedenti: l’attore o l’attrice, che siano professionisti o non, sono al centro di tutto. Questo può risultare complicato per alcuni direttori della fotografia, dato che di solito si parte dal campo lungo, si illumina tutto lo spazio e poi ci si avvicina, ma nel mio caso tutto ruota attorno agli attori. La dimensione visiva del film è cruciale per me: la costruisco già in sceneggiatura e vado creando un universo estetico che poi si sviluppa con il direttore della fotografia. In questo caso, Adrián Durazo ha dato un grande contributo. Per esempio, all’inizio avevamo pensato di usare ottiche anamorfiche, dato che lui aveva lavorato in film di Carlos Reygadas e aveva una grande esperienza con quel tipo di ottiche. Abbiamo iniziato a fare prove e ci siamo resi conto che non permettevano la libertà di cui avevo bisogno. Abbiamo quindi deciso di lavorare con ottiche sferiche, e credo sia stata un’ottima scelta, perché ha permesso che la macchina da presa non diventasse un personaggio a sé, ma restasse il più invisibile possibile.
Lavora molto con attori non professionisti, ma li pone comunque in situazioni molto vulnerabili, intime e perfino scomode. Com’è stato il suo lavoro con gli interpreti di Hiedra?
Abbiamo fatto un processo di casting molto accurato e lungo. Siamo andati in diverse scuole e centri. Un paio di ragazzi che si sono presentati al casting non erano previsti in sceneggiatura, ma mi sono sembrati così potenti che ho deciso di includere i loro personaggi. Il casting ha arricchito notevolmente il film. Per quanto riguarda Simone Bucio, lei è un’attrice professionista e mi attirava molto il suo mistero; sentivo che in lei potevamo trovare una fragilità interessante. La direzione degli attori è una delle cose che mi appassionano di più. Propongo io stessa degli esercizi, creando un rapporto molto forte. Quando siamo arrivati sul set, c’era già un legame profondo con la storia e tra di loro, ma, siccome erano adolescenti senza esperienza attoriale precedente, è stato essenziale aiutarli a prendere le distanze emotivamente dal materiale.
Ha detto che nel suo cinema cerca qualcosa di sensoriale, quasi come un profumo. Quali sono state le sue principali ispirazioni in questo senso?
Quando inizio a scrivere una storia, non penso prima alla struttura, a dove comincia o finisce. Piuttosto, tutto parte da una sensazione corporea. In questo caso era una sensazione acida, di vuoto, qualcosa che ho preso come punto di partenza e di cui ho seguito il filo, che si è portato dietro altre sensazioni, immagini ed emozioni. Solo quando questo diventa sufficientemente forte, comincio a scrivere. Deve essere qualcosa che mi accompagni per anni, perché fare un film può richiedere cinque o anche sette anni. In questo progetto volevo parlare di certe ferite, dell’abbandono, di ciò che resta dopo un abuso. Anche di sensazioni specifiche di Quito, il che mi ha portata al titolo. L’edera è una pianta che cresce negli spazi abbandonati, si attacca ai muri, è bellissima ma anche tossica. Quella dualità mi interessava molto, così come la sensazione di una città avvolta dalla nebbia, ai margini di ciò che si considera successo o normalità.
(Tradotto dallo spagnolo)
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