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VENEZIA 2025 Giornate degli Autori

Tekla Taidelli • Regista di 6:06

“Questo film è un manifesto per i giovani disillusi post-Covid”

di 

- VENEZIA 2025: La regista italiana torna con un’opera sul loop della dipendenza e della depressione, illuminata, questa volta, da un rinnovato sguardo di speranza

Tekla Taidelli  • Regista di 6:06
(© Moris Puccio & Debora Savian/Giornate degli Autori)

6:06 [+leggi anche:
trailer
intervista: Tekla Taidelli
scheda film
]
, il secondo lungometraggio di Tekla Taidelli, presentato in anteprima alle Notti Veneziane delle Giornate degli Autori di Venezia e vincitore del Premio SIAE al talento creativo, racconta la storia di Leo, un ventiseienne intrappolato in un loop di dipendenza e giornate in bianco e nero, tra lavori precari e la ricerca ossessiva di scomparire nella prossima dose. La sua vita cambia quando incontra Jo-Jo, un’enigmatica ventenne francese che vive in un caravan, portando con sé i propri demoni. Insieme intraprendono un viaggio di liberazione verso il Portogallo, dove le loro anime, spezzate ma complementari, trovano un dialogo universale. A vent’anni dal suo esordio con Fuori Vena (2005), un’intensa storia di amore e tossicodipendenza selezionata nella sezione Cineasti del presente a Locarno, Taidelli torna al cinema dopo aver dedicato anni alla sua Scuola di Street Cinema, fondata nel 2013 a Milano, dove insegna a dare voce agli invisibili attraverso testi di grandi autori come Shakespeare e Pasolini. 6:06 è un manifesto di rinascita, un’opera indipendente che unisce neorealismo, catarsi e un messaggio universale: nessuno si salva da solo.

CinecittàNews: A 20 anni dal tuo primo film, questo 6:06 è quasi un secondo debutto per te. Cosa sono stati questi vent’anni per te? Come hanno influenzato il tuo ritorno al cinema?
Tekla Taidelli:
Fare cinema indipendente è una sfida, soprattutto per chi, come me, lavora fuori dagli schemi. Dopo Fuori Vena, il mio primo film, sono stata segnata dalla sua storia vera, legata al mio ex ragazzo e a un mondo di dipendenze. È stato un colpo duro: molte persone care sono morte, e io mi sono disamorata del cinema. Claudio Caligari, dopo aver visto il mio film, mi disse: “Benvenuta nella lista dei maledetti, farai tre film”. Ho fatto il secondo, 6:06. Non ho mai smesso di fare cinema, però: ho fondato una scuola di cinema per dare voce agli invisibili, lavorando con homeless, musicisti di strada e pescatori, rielaborando con loro testi di grandi autori come Baudelaire e Pasolini.

Quindi non hai mai abbandonato il cinema, ma hai scelto un percorso diverso. Cosa ti ha spinto a tornare con 6:06?
È stato Jacopo Pica di Illmatic Film Group a convincermi. Mi ha ospitato a Roma per un corso di cinema e mi ha spinto a fare un secondo film. È nato un bando, “Il cinema e la strada”, dove i miei allievi proponevano soggetti. All’ultimo minuto, Leonardo Roberto mi ha mandato una paginetta per 6:06, un’idea di un loop in bianco e nero. Mi ha colpito subito: era diversa dal mio solito processo creativo, che partiva dalla mia vita, come in Fuori Vena. Qui ho raccontato la mia rinascita, ispirata da una vita estrema, punk, ma anche dalla voglia di trasmettere un messaggio di luce.

Il film parla di rinascita, un tema universale. Come hai sviluppato questa storia e il suo messaggio?
6:06 è partito da un mediometraggio in bianco e nero, con solo un momento a colori per rappresentare la rinascita. In Portogallo, mostrando il progetto ad amici surfisti, mi hanno detto: “Tu vivi a colori, ora, finalmente, non puoi tornare al nero”. Ho riscritto la sceneggiatura, rendendola più universale. È un manifesto per i giovani disillusi post-Covid, che spesso mancano di ideali. Ma è anche un messaggio per il cinema indipendente: un film collettivo, fatto con quelli che io chiamo “pirati”, i miei collaboratori, che ci hanno messo anima e cuore, nonostante le difficoltà produttive. Abbiamo creato una famiglia sul set, condividendo un’esperienza umana profonda.

Parli di famiglia e di un’esperienza catartica. Puoi raccontarci un momento significativo del set?
Una scena potente è stata quella del tentato suicidio. Non volevo girarla, perché mio padre è morto suicida e per me era molto difficile, ma Davide, l’attore protagonista, ha insistito perché fosse un’occasione catartica. Due giorni prima delle riprese, abbiamo cercato una corda, fatto sopralluoghi, e io ero emotivamente scossa. Sul set, non guardavo il monitor, mi fidavo ciecamente del mio direttore della fotografia, che viene dal cinema di Franco Maresco. Quando abbiamo finito, l’operatore piangeva, ci siamo abbracciati: non era solo un film, era un’esperienza umana che ha toccato le corde dell’anima. Questo è il cinema per me: andare a fondo, sempre.

Nel film si dice, in fondo, “non ci si salva da soli”. È una lezione che hai imparato nella tua vita?
Assolutamente. Non è solo l’amore romantico a salvarti, ma l’amore di tante persone: amici, fratelli e sorelle della strada. La mia famiglia biologica era distrutta, ma l’amore degli altri mi ha salvato. Nel film, il protagonista esce dal loop grazie a un un altro giocattolo spezzato come è lui. L’amore, in tutte le sue forme, è ciò che muove il mondo e dà una seconda chance. […]

Nel film si percepisce l’eco della pandemia, con il protagonista che vive in un loop temporale. Come hai affrontato il tema delle nuove generazioni e il loro rapporto con le sostanze?
I giovani di oggi sono diversi da noi. Sono più sensibili, ma anche più disillusi, “frizzati” dai social e senza ideali. Il rapporto con le sostanze è più distruttivo: ai miei tempi, l’eroina o il crack erano noti per i loro danni, ma oggi si consuma di tutto senza consapevolezza. Però, quando incontro giovani nella mia scuola, trovo anime meravigliose. 6:06 parla a loro, cercando di risvegliare la loro coscienza in un mondo caotico, dove persino le immagini di guerra sono scrollate via sul telefono.

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