VENEZIA 2025 Giornate degli Autori
Bonifacio Angius • Regista di Confiteor. Come scoprii che non avrei fatto la rivoluzione
"Raccontare la mia storia in modo troppo serioso sarebbe stato insopportabile"
di Alessandro Cavaggioni - Cinecittà News
- VENEZIA 2025: Il film del regista sardo, con Edoardo Pesce e Geppi Cucciari nel cast, riflette sul suo passato seguendo la lezione di 8 ½

Dopo il successo di I Giganti [+leggi anche:
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intervista: Bonifacio Angius
scheda film], il regista sardo Bonifacio Angius torna a raccontare la propria storia unendo ironia, dramma e teatro. Sottotitolo del film, presentato nelle Notti Veneziane alle Giornate degli Autori a Venezia e vincitore del Premio Carlo Lizzani al miglior film italiano del festival, un’ammissione: Confiteor. Come scoprii che non avrei fatto la rivoluzione [+leggi anche:
intervista: Bonifacio Angius
scheda film]. Per quanto legato ai paesaggi sardi, il film trascende i confini e si ambienta in un non luogo che è la mente dello stesso Angius, che ripercorre il proprio passato e in questa semi-biografia riflette su temi universali come la famiglia, il tempo che passa e le fragilità umane. Nel cast troviamo Giuliana De Sio, Edoardo Pesce e una sorprendente Geppi Cucciari nei panni della sorella del protagonista. Una narrazione stratificata, fatta di visioni e flashback, che guarda anche e soprattutto al Fellini di 8 1/2. Anche qui, infatti, il protagonista cerca di realizzare un film. La storia, scritta dallo stesso Angius, è così una confessione intima e viscerale, che prosegue l’operazione di rielaborazione iniziata nel 2014 con Perfidia [+leggi anche:
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scheda film] e proseguita con Ovunque proteggimi [+leggi anche:
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scheda film], tra visioni e flashback.
CinecittàNews: Hai iniziato a lavorare a Confiteor prima della pandemia, poi hai realizzato I Giganti e solo dopo hai ripreso in mano questa storia. Come ha influito questa lunga gestazione sulla forma del film?
Bonifacio Angius: Durante la pandemia c’è stata una pausa in cui abbiamo girato I Giganti, un progetto non previsto che ha cambiato la traiettoria del mio percorso cinematografico. Io costruisco i miei film in continuità, uno dopo l’altro, ma I Giganti ha modificato il discorso. Dopo la pandemia, Confiteor ha subito un cambiamento produttivo: i produttori precedenti hanno abbandonato il progetto. Col tempo, il film mi sembrava troppo rigoroso, quasi “senile”. Di solito, immagino di girare un film con l’entusiasmo di un bambino che scarta un giocattolo, ma stavolta provavo paura, come se non mi appartenesse più. Ho pensato di rinunciare, ma avrebbe creato problemi economici legati ai bandi vinti e questioni burocratiche varie. Mi hanno consigliato di scrivere un monologo per giustificare l’abbandono, l’ho scritto di getto, e da lì è nata l’idea di rinnovare il film. Il monologo è diventato il cuore del progetto, che è cresciuto, diventando più grande di prima, con un entusiasmo enorme. Abbiamo ripreso scene della vecchia versione, aggiunto nuove sequenze con eventi autobiografici più vividi, costruendo il film attorno al ricordo e alla nostalgia.
Senti che questo film ti abbia aiutato a risolvere qualcosa del tuo rapporto col passato?
Non lo so, lo vedremo. Le difficoltà non sono finite, anzi, sono aumentate. Mi sono incaponito a volerlo realizzare a tutti i costi, e ci sono stati momenti in cui temevo di non farcela. Non finirlo non sarebbe stata una liberazione, ma un peccato. È stato un periodo duro, anche depressivo, perché un film non è mai solo un film: mette a rischio i rapporti personali, coinvolge chi ti sta intorno. Mio figlio era nel cast, e per un bambino non è facile capire alcuni aspetti del set, ad esempio le lunghe attese. Man mano che ci avvicinavamo alla fine, però, stavo meglio. Completata la copia campione, mi sono sentito sollevato, come se stessi guarendo. Ora il prossimo traguardo è lavorare sulla distribuzione per portare il film al pubblico delle sale, che credo abbia un grande potenziale. […]
Il film richiama esplicitamente 8½ di Fellini.
8½ è uno dei miei film preferiti, Fellini forse il mio autore preferito. Ho 43 anni, come Fellini quando lo girò, e questo mi ha dato conforto, ma non ho cercato di rifare il suo film, sarebbe una follia. Ho raccontato la mia vita, i miei nipoti, la storia di mio padre e le sue sfortune. Mi dicevo che non sarei mai diventato come lui, ma a un certo punto mi sono sentito simile, e questo è parte del racconto.
C’è una scena in cui il personaggio che ti rappresenta da bambino viene portato al cinema dal padre. Quali sono i tuoi ricordi della tua prima volta in sala?
Ricordo di essere andato con mio padre a vedere I Goonies e Il nome della rosa. Mi ricordo che non sarei potuto entrare a vedere quest’ultimo, allora mio padre mi nascose sotto il cappotto. Ricordo la scena del frate che si autoflagella, sudato, e quella della “zingarella” con il traduttore in una cava. Più grande, a Firenze, vedevo i film di Fellini in 35 mm, ma molti capolavori li ho visti in VHS, sono di quella generazione.
Il film sembra ambientato in un luogo della mente, con scenografie che ricordano un teatro. È stata una scelta voluta?
Sì, l’ho girato in un teatro di posa per ottenere quell’impatto visivo prospettico che non si ha in location. In teatro controlli tutto: luce, colori, pavimento, ogni dettaglio. È come essere l’imperatore del film. Questo mi ha permesso di ridisegnare i luoghi del ricordo, non di riprodurre la realtà, ma di evocare una verità legata alla memoria. La teatralità era fondamentale.
Hai citato l’aspetto comico del film. È stato un modo per rielaborare il tuo passato in chiave sarcastica?
Nei miei film c’è sempre una vena comica, anche nelle scene drammatiche. Qui, raccontare la mia storia in modo troppo serioso sarebbe stato insopportabile. Doveva avere una connotazione grottesca, altrimenti non avrei retto. Non potevo prendermi troppo sul serio. […]
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