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VENEZIA 2025 Giornate degli Autori

Massimiliano Battistella • Regista di Dom

"Quando si raccontano certe storie è importante la spinta etica, l’ascolto e anche cercare di stare un passo indietro"

di 

- VENEZIA 2025: Intervista con l’autore della storia di Mirela Hodo, bambina della guerra in Bosnia ed Erzegovina, dall’orfanotrofio di Dom Bjelave alla Romagna e ritorno

Massimiliano Battistella • Regista di Dom
(© Moris Puccio & Debora Savian/Giornate degli Autori)

Ci sono film che nascono da un’urgenza, e che nella loro forma portano addosso la traccia di un’inquietudine interiore. Dom [+leggi anche:
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scheda film
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di Massimiliano Battistella non è solo una storia, ma un ambiente emotivo, un paesaggio mentale che lo spettatore è chiamato ad abitare. Nel film, l’intimità e la perdita s’intrecciano con una ricerca formale rigorosa, in cui il tempo delle immagini scava dentro quello della memoria. La messa in scena diventa un varco: attraverso i dettagli quotidiani, i silenzi e i gesti sospesi, Battistella compone un cinema che riflette su cosa significhi abitare uno spazio, un legame, una condizione esistenziale. Il film ha aperto le Notti Veneziane alle 22me Giornate degli Autori di Venezia.

CinecittàNews: Massimiliano, con Dom la dimensione dello spazio intimo si trasforma in un territorio emotivo e simbolico. Qual è stato il punto di partenza per costruire questa relazione tra spazi fisici e luoghi interiori?
Massimiliano Battistella: Il punto di partenza è stato pittorico, visivo e emotivo: io stavo lavorando ad un film sulla maternità, sulla maternità perduta, e mi stavo ispirando alla pittura del Rinascimento, a certe figure legate alle immagini di certe Madonne, a una certa delicatezza del Botticelli, stavo cercando una maternità in qualche modo visiva. Ho incontrato poi la storia dell’orfanotrofio di Dom Bjelave e mi sono avvicinato in modo viscerale alle persone e l’incontro con Mirela è stata una sorta di epifania, perché ho trovato in lei quegli elementi che stavo cercando, elementi miei, personali; è come se ci fosse stata una sorta di mise en abyme in quel momento, di un qualcosa che era già in me ma che ho riscontrato in una storia concreta, reale. Ho avuto una spinta interiore che mi ha portato a cercare di stare quanto più in prossimità dei personaggi, in particolar modo della protagonista appunto, che racconta sé stessa: dunque, la mia prossimità del suo sguardo è la sua prossimità dello sguardo rispetto a una storia che ho racconto, quella di un’infanzia spezzata ma che – paradossalmente – continua in maniera energica, quasi miracolosa.

Mirela – allora 10 anni, evacuata in Italia su un convoglio umanitario allo scoppio della guerra slava – appare come un corpo narrante. Quale direzione ha scelto per trasformarla in un punto di contatto tra la dimensione intima del film e il suo respiro universale?
In realtà, attraverso l’astratto. Ci sono due grandi linee che ho seguito, entrambe fanno parte del mio sguardo, della mia visione rispetto a questa storia. C’è una linea più astratta che si distacca dal realismo, dagli elementi concreti, e una linea – invece – di verità. Tutto questo insieme si configura come un racconto completo: attraverso il dialogo tra questi elementi sono arrivato a concretizzare una narrazione, tale in quanto io respiro con Mirella. La prossimità degli sguardi è stata sostanziale: il totale abbandono, la nostra empatia, l’essere sempre in contatto, hanno un percorso che va al di là del film, che abbraccia anche un metodo che abbiamo applicato, quello del psicodramma, supportati da una figura preposta all’ascolto; chiaramente, quando si raccontano certe storie è importante sempre la spinta etica, l’ascolto e anche cercare di stare un passo indietro, senza mai spingere la persona che si sta raccontando. Attraverso questa sorta di fiducia siamo arrivati ad aprire uno sguardo verso un racconto che diventa universale, perché la storia di Mirela abbraccia quella di tanti che hanno vissuto quell’esperienza, in particolare quella dell’orfanotrofio Dom Bjelave, seppur il tema dello sradicamento si allarghi, ahimè, all’intera umanità.

In che modo ha conciliato la necessità di proteggere la delicatezza dei temi trattati con l’esigenza di dar loro una forma visiva potente?
È sempre molto dedicata la questione. Sicuramente, sono grato anche al mio produttore, Riccardo Biadene, che è riuscito a creare una squadra di lavoro davvero importante intorno a me, che mi ha consentito di abbandonarmi a una dimensione infantile, totale nel senso di libertà, perché avendo intorno un supporto tecnico mi sono calato nel punto di vista di un bambino, un punto di vista naif, e in questo senso ho cercato di raccontare questa storia da quell’altezza lì. Un’altra altezza non sarebbe stata giusta. Io l’ho sentita così, perché quando ho incontrato Mirela la prima volta ho percepito in lei queste due grandi anime: da una parte, la madre realizzata, e dall’altra quella bambina di 10 anni, e mi sembra che in queste due anime, comunque, ci sia sempre l’elemento infantile preponderante. Mi sono messo in maniera naturale a quell’altezza e attraverso quello sguardo mi sembrava tutto paradossalmente più astratto, più colorato, non giudicante, più divertente, in cui c’è sempre un cercare.

Oltre alla dimensione visiva, in Dom sembra anche che il suono e il silenzio diventino protagonisti. Che ruolo ha avuto la progettazione sonora nel processo creativo?
Un ruolo sostanziale perché tutta la dimensione del suono è una dimensione interiore, di realismo, da un punto di vista di ricerca sonora e di presa diretta. I suoni sono realmente i suoni di Sarajevo, c’è realismo nella purezza dei suoni: non abbiamo creato effetti, non abbiamo aggiunto elementi che possano creare una distonia, e tutto questo lo abbiamo interiorizzato rispetto allo sguardo. […]

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