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SAN SEBASTIAN 2025 Concorso

José Luis Guerín • Regista di Historias del buen valle

“Concepisco di fare film solo per affetto”

di 

- Il regista torna al festival dove aveva già trionfato e ci parla di giovani registi, della diversità umana che popola il suo nuovo film e di quanto detesti l'(ab)uso di droni

José Luis Guerín • Regista di Historias del buen valle
(© Jorge Fuembuena/SSIFF)

Il maestro José Luis Guerín è tornato in concorso al Festival di San Sebastian, dove si è aggiudicato ancora una volta il Premio speciale della giuria, con il film di non-fiction Historias del buen valle [+leggi anche:
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intervista: José Luis Guerín
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, girato nella periferia della sua Barcellona natale. Lo abbiamo incontrato.

Cineuropa: Come sopravvive qualcuno che presenta film così di rado?
José Luis Guerín:
I miei film sono così distanziati nel tempo che ho dovuto cercare un sostegno economico e quasi sempre l’ho trovato nell’insegnamento, che mi diverte più che fare pubblicità. Mi piace vedere come i giovani pensano il cinema e sognano i film che vogliono girare. Faccio molta attività di tutoraggio. È un modo di continuare a pensare da cineasta.

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Sentire quell'energia giovanile la stimola anche?
Energia e stupore, a volte... Perché, curiosamente, ci sono giovani terribilmente vecchi che fanno film per inerzia, ripetendo formule, e che non hanno mai visto un film, il che mi crea difficoltà. Prima, si potevano citare i classici e tutti sapevano a chi ti riferivi se parlavi di Fritz Lang o Charles Chaplin, oggi nemmeno quello. Infatti una delle cose che propongo sempre agli studenti che mi presentano i loro progetti è di stilare una piccola filmografia di alcuni titoli che li hanno preceduti sullo stesso tema che intendono affrontare. E mi sembra sorprendente che non nasca spontaneamente quella curiosità verso chi ha già filmato qualcosa prima. Io comincio i miei film così: quando vado in un luogo, leggo e mi documento, cercando quali immagini cinematografiche mi hanno preceduto.

Ma nel caso del quartiere di Vallbona non c’era niente, vero?
Esatto! Solo Marc Recha ha utilizzato alcune location per il suo film Petit indi [+leggi anche:
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. Questo mi ha spinto a iniziare a filmare in Super 8 muto, perché quel luogo era senza tempo, con zone sterrate e bambini che nuotavano nei ruscelli. Questi motivi visivi mi hanno riportato agli anni Sessanta o ancora più indietro, ricordandomi El Jarama, il romanzo di Rafael Sánchez Ferlosio, quando la spiaggia era più appannaggio di una certa classe sociale e i picnic popolari si facevano lungo i fiumi. Quell’atemporalità mi ha spinto a imbracciare di nuovo la stessa macchina con cui ho iniziato a filmare negli anni Settanta. Ho voluto recuperarla perché mi riportava a immagini che ho vissuto in quegli anni, e ho filmato il presente con il sentimento retrospettivo di star generando immagini d’archivio.

E quelle immagini fanno parte della commissione da cui è poi scaturito il lungometraggio?
Sì, dall’incarico che mi ha affidato il MACBA (Museo d’Arte Contemporanea di Barcellona), il che ha risvegliato in me il desiderio di continuare a esplorare quel territorio, di creare legami con quel luogo, che non potevo abbandonare. Mi sono innamorato di quella gente. Perché concepisco di fare film solo per affetto, il che è un limite per un cineasta. Penso di poter indicare la mostruosità, ma non posso filmare mostri. Quando filmo una persona creo un legame.

Immagino che, tra tutte le persone del quartiere che appaiono nel film, abbia scelto le più empatiche…
C'è il piacere che certi personaggi trasmettono per via del loro carattere, ma d'altra parte, erano importanti anche i concetti che incarnavano e il modo in cui descrivevano la morfologia umana di questo luogo.

Quella diversità che è un riflesso del mondo, una ricchezza contro certe narrazioni che la negano.
Il nazionalismo proietta demoni al di fuori di sé. È percepito come una purezza e un'autenticità corrotte dalla presenza degli altri, e io non posso che vederlo al contrario: ci sono solo vantaggi, perché questi stranieri hanno arricchito le città con la loro presenza. E ricordo quando, negli anni Settanta, facevo i miei pellegrinaggi a Parigi per vedere film e lo stupore che mi causava vedere nella metro una diversità umana così grande. E quando tornavi qui c’era solo un’uniformità grigia, e la gente si vestiva allo stesso modo… Non credo che qualcuno voglia tornare a quello. Scaricare la colpa dei propri mali sui più deboli e indifesi mi indigna.

Il film è una dichiarazione d’amore a questo luogo e a questa gente, dove non si vedono telefoni cellulari…
Soprattutto, non si vedono droni, che offrono un punto di vista disumano, perché nessuno guarda come un drone. Detesto l’uso dei droni: è come l’abuso dello zoom negli anni Sessanta o della steadicam, che crea film senza peso, come in sospensione. Chi usa i droni nel cinema dovrebbe pagare più tasse.

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(Tradotto dallo spagnolo)

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