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Italia

Loris G. Nese • Regista di Una cosa vicina

“Ho cercato forme alternative che esprimessero l'irrappresentabilità dei sentimenti e dei percorsi che avevo vissuto”

di 

- Il regista salernitano ci parla del suo personalissimo documentario in cui cerca di ricostruire i ricordi che non ha di suo padre, ucciso in una faida quando lui aveva solo 4 anni

Loris G. Nese • Regista di Una cosa vicina

Dopo la première alle Giornate degli Autori della 82ma Mostra di Venezia, Loris G. Nese ha presentato il suo documentario d’esordio, Una cosa vicina [+leggi anche:
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, in proiezione speciale al 30mo Linea D’Ombra Festival di Salerno, la città che lo ha visto nascere e dove l’autore ha scavato per scoprire chi era davvero suo padre, ucciso da cinque colpi di pistola quando lui aveva solo 4 anni.

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Cineuropa: Come è nata l’esigenza di trasformare la sua storia personale in un film?
Loris. G. Nese: È nata da un bisogno un po' irrazionale di elaborare delle suggestioni che mi venivano da varie parti, un po' dai telegiornali, un po' da racconti familiari, un po' da sconosciuti che per qualche motivo mi riconoscevano per strada e sentivano il bisogno di dirmi qualcosa. È un film su certi spaccati legati ad aree marginali della mia città, ma anche sul modo di rappresentare questo tipo di storia. Quando ho iniziato a pensarlo, circa dieci anni fa, mi trovavo nel post Gomorra [+leggi anche:
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, in cui il racconto della Campania era fortemente indirizzato verso certe forme molto codificate di narrazione. Da adolescente, come spettatore, mi sono formato con i film di Scorsese, De Palma, Coppola, e certi racconti sembravano parlare anche di me. Ho quindi provato a dire la mia all'interno di questa storia, cercando di non avere un punto di vista lineare o già precostituito, ma provando a mettere dentro tutti i paradossi di quelle varie voci e stimolazioni che venivano da parti diverse.

Il suo film mischia documentario, autobiografia, materiale d'archivio e animazione, è un lavoro molto creativo e allo stesso tempo utilizza le più tradizionali talking heads. Come ha combinato queste varie forme?
Guardando i miei filmini di famiglia ho iniziato a rendermi conto delle forme che potevano essere messe in campo, alternate a momenti di racconto, di confronto diretto tra me e le persone che mi hanno accompagnato nel momento di formazione della mia identità. Le talking heads sono state l'incipit, come succede spesso nel documentario: parti dal cercare di mettere insieme le cose, fai ricerca filmando. Questa ricerca mi ha permesso di creare una struttura su cui poi potessi andare a confondere un po' le carte e mischiare linguaggi. Linguaggi che venivano anche da altri materiali, più ufficiali, che offrivano un punto di vista contraddittorio rispetto al punto di vista familiare. C'era il punto di vista della cronaca, per esempio, che è stato quello che più ha condizionato la mia crescita, perché è stato il primo avvicinamento a questa storia che riguardava la mia famiglia, ma in un contesto che inglobava anche la città e, in realtà, tutto il Paese. È stato lì che ho iniziato anche a cercare forme alternative, che non fossero soltanto ancorate alla fisicità delle immagini, dei corpi e delle voci, ma che si portassero dentro l'irrappresentabilità dei sentimenti e dei percorsi che avevo vissuto.

Perché la scelta del bianco e nero per le interviste?
Il bianco e nero mi serviva ad evocare un senso di sospensione, di atemporalità, per provare a incastrare questa storia in un tempo possibile che è, sì, ancorato a un passato molto preciso, a cavallo tra gli anni '90 e inizio 2000, ma che in realtà può ripetersi in qualunque contesto temporale e spaziale. In più volevo aggiungere un ulteriore filtro alla narrazione, nel senso che questo è anche un film fatto di filtri. Essendoci la messa in gioco della propria storia, dei propri sentimenti, la difficoltà derivava proprio dal trovare il giusto equilibrio tra ciò che si poteva mettere in scena e ciò che rischiava di essere troppo esposto, quindi insostenibile sia per i personaggi che per lo spettatore.

Si parla molto di suo padre, eppure non ne vediamo il volto fino all'ultimo fotogramma.
Questa è una delle scelte venute al montaggio con Chiara Marotta, montatrice e produttrice del film. Nasce dal bisogno di evocare una presenza di cui non fossero chiare le coordinate, perché questo film è anche una ricerca del proprio passato inteso come la ricerca di chi ci ha preceduto e ha condizionato in qualche modo il nostro presente. Ciò viene portato avanti attraverso vari tentativi che il personaggio fa nel corso della narrazione, partendo dall'infanzia, passando per l'adolescenza e arrivando all'età adulta, e solo quando inizia a mettere insieme i pezzi in tutto questo caos, può iniziare a definire una forma.

Ci sono due voci narranti nel film: una è quella di Francesco Di Leva, l’altra è di suo figlio 15enne Mario Di Leva. Come è nata questa collaborazione?
È nata dal cortometraggio precedente, Z.O., che era un modo per provare ad avvicinarmi a questa storia in forma di fiction (d'animazione, in quel caso) in cui sempre rielaboravo attraverso un linguaggio ibrido certe dinamiche legate alla periferia di Salerno. Francesco ha subito sposato il progetto, alla luce di una condivisione di valori – lui da napoletano, io da salernitano – inseriti in contesti sostanzialmente vicini, nel senso che io vengo dalla zona orientale di Salerno, che sta al centro come Napoli Est sta al centro di Napoli. Abbiamo portato avanti un lavoro molto preciso, che non si limita allo scrivere dei testi e farli recitare in uno studio di registrazione. Abbiamo fatto una cosa che non si fa molto spesso, cioè stare lì a guardarci negli occhi e cercare il modo migliore per dire certe cose, il che ti fa perdere più tempo ma ti dà anche un'intensità e una verità che mi piace cercare sempre. Con Mario il passaggio è stato molto naturale perché a un certo punto ho sentito il bisogno di inserire una parte del racconto che includesse la voce della post-infanzia. Lavorare con due attori che sono padre e figlio e che interpretano lo stesso personaggio a distanza di anni, condividendo un timbro di voce molto riconoscibile, è stata un'occasione più unica che rara.

Un lungometraggio di finzione rientra fra i suoi progetti futuri?
Sì, ho già in sviluppo il mio prossimo film, che è una nuova rielaborazione in chiave di fiction di questi temi. Partendo da spunti simili, torno a raccontare la difficoltà di decodificare certe dinamiche familiari viste con gli occhi di due bambini, due fratelli che cercano di ricostruire le origini della loro famiglia.

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