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Italia / Belgio

Loris Lai • Regista di I bambini di Gaza - Sulle onde della libertà

“I bambini sono le uniche vittime assolute del conflitto, perché non decidono nulla”

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- Il regista ci parla del suo film ambientato a Gaza nel 2003, durante la seconda Intifada, con protagonisti un bambino palestinese e uno israeliano uniti dalla passione per il surf

Loris Lai • Regista di I bambini di Gaza - Sulle onde della libertà

Ispirato all’omonimo romanzo di Nicoletta Bortolotti, I bambini di Gaza - Sulle onde della libertà [+leggi anche:
intervista: Loris Lai
scheda film
]
è ambientato nella Striscia di Gaza nel 2003, durante la seconda Intifada, dove un bambino palestinese e uno israeliano sono uniti dalla passione per il surf. Abbiamo parlato con il suo autore Loris Lai, candidato al David di Donatello 2025 per il miglior regista esordiente, in occasione della proiezione speciale del film al 30mo Linea D’Ombra Festival di Salerno.

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Cineuropa: Alla luce degli eventi seguiti al 7 ottobre 2023, parlare dei bambini di Gaza ha un impatto ancora più forte, visto che si stima che i piccoli uccisi nella Striscia siano ormai più di 20mila. Perché lei aveva scelto di raccontare Gaza dal punto di vista dei bambini?
Lori Lai: Perché i bambini ti portano in una dimensione senza confini e sono davvero le uniche vittime assolute del conflitto, perché non decidono nulla. Semplicemente vivono, assorbono quello che gli adulti decidono di fare. Quando è avvenuto il 7 ottobre, il film era praticamente pronto, mancava solo qualche passaggio in post-produzione. Adesso nel mondo ci sono più di 50 guerre attive, per cui quel punto di vista ci portava ad ampliare il messaggio. Il messaggio che portano i bambini nel film è quello della convivenza, perché a livello istintivo riescono a trovare la maniera di abbattere le barriere costruite dagli adulti.

Quella al centro del film è un'amicizia impossibile, quasi shakespeariana?
Lo è. Quando ho letto il romanzo di Nicoletta Bortolotti, un libro per ragazzi molto bello che è stato scritto per comunicare ai giovani in una maniera più poetica quello che avveniva in quei luoghi, mi ha colpito proprio per questo archetipo shakespeariano, un'amicizia impossibile come lo era l’amore tra Romeo e Giulietta. Avendo la stessa passione per il surf, i due bambini si rendono conto che di fatto non sono così diversi, eppure sono destinati per nascita a odiarsi.

In passato lei ha lavorato come fotoreporter a Gaza. Questa sua esperienza sul campo come ha influito sul suo stile di regia?
Da cineasta, sono convinto che ogni storia abbia una maniera giusta per essere raccontata. In questo film abbiamo due stili di ripresa. Uno è quello con la macchina a spalla per far sentire la tensione all'interno della città. Quando invece siamo sulla spiaggia la macchina di colpo diventa più morbida, più misurata proprio perché quello è il luogo dove i protagonisti sono al sicuro, fanno ciò che amano. Anche nella fotografia c'è un contrasto all'interno della città, i colori sono più forti, netti. Di là, invece, abbiamo dei colori più pastello. Volevamo cercare di rendere questa dicotomia tra città e spiaggia.

Il film è improntato a un grande realismo, ma ci sono anche dei momenti onirici. È qualcosa che ha aggiunto lei o era presente nell'opera originale?
No, quello l'ho aggiunto io, è il mio stile. L'ho pensato perché i bambini in quei posti – e ci ho parlato personalmente essendoci stato tre volte – hanno un pragmatismo sconvolgente. Hanno la coscienza di quello che gli succede intorno, ti dicono “noi sappiamo quando andiamo a dormire, ma sappiamo anche che potremmo non svegliarci più”. Ma ti dicono anche che non hanno paura, non conoscendo niente di diverso da quella realtà. La parte onirica è il subconscio del bambino che deve affrontare la realtà in quella maniera, ma evidentemente questo odio che li circonda viene assorbito dalle loro coscienze. Credo che uno dei problemi più grandi dei bambini che vivono in situazioni di guerra sia proprio il bagaglio terribile che si portano dentro. Se riescono a sopravvivere, cresceranno con un odio molto radicato, perché magari gli hanno ammazzato il papà, la mamma, oppure hanno perso un braccio o una gamba. È un ciclo che non si ferma, l’odio genera odio, e andrebbero aiutati in questo perché loro sono il futuro.

I due bambini protagonisti, come li ha trovati? E come si sono relazionati fra di loro sul set?
Il casting è partito in Europa, poi la ricerca è stata estesa dal Libano fino all'Egitto, e ovviamente Israele, Palestina, Giordania. Alla fine ci siamo concentrati nel West Bank, a Jenin in particolare, e lì abbiamo trovato quasi tutti i bambini. Il bambino israeliano invece viene da Tel Aviv. Rispetto al loro rapporto, inizialmente erano molto diffidenti perché il bambino palestinese viene veramente da un villaggio arabo vicino Gaza, e gran parte della sua famiglia vive ancora nella Striscia. Non parlavano tra di loro, e neppure le loro mamme, alle pause pranzo erano sedute sempre ai lati opposti della sala. Poi, con il passare dei giorni, i bambini erano “costretti” a fare queste scene insieme e pian piano, come avviene appunto nel film, hanno capito che di base non c'era alcuna differenza tra di loro. Erano due ragazzini che stavano vivendo un'esperienza bellissima, su un set cinematografico, per la prima volta. Si sono avvicinati, sono diventati amici, e di conseguenza anche le loro mamme.

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