Recensione: Summerhouse
- Il regista croato Damir Cucic si addentra nel cuore di alcuni strani incontri che avvengono in un hotel deserto dove un uomo cieco registra testimonianze di violenza
"Possiamo teorizzare tutto ciò che vogliamo, ma mi fido del mio intuito". È attorno a un personaggio molto singolare che gravita il non meno insolito Summerhouse [+leggi anche:
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scheda film], secondo lungometraggio di finzione del croato Damir Cucic, rivelatosi con A Letter to My Father [+leggi anche:
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intervista: Damir Cucic
scheda film] e cineasta che ama navigare sul confine sfumato col documentario, un genere che ha praticato soprattutto con The Spirits Diary e Mitch-Diary of a Schizophrenic. Presentato in anteprima mondiale nella competizione internazionale del 29° FIDMarseille (dal 10 al 16 luglio), il suo nuovo lavoro ruota attorno a un cieco che vaga per un vasto albergo impersonale, immerso nella campagna e svuotato durante la stagione invernale, per un viaggio nelle crepe umane e nei traumi dell'infanzia.
"Mi piace arrivare da una direzione inaspettata". Al bar dell'hotel, il cieco Vojin, che abbiamo visto nuotare in una piscina al coperto deserta e poi armeggiare nella sua stanza per asciugarsi i capelli e vestirsi, incontra la trentenne Marina. L'enigmatico inizio del film vede il duo conoscersi durante il solitario pasto tête-à-tête che si svolge nell'enorme sala da pranzo dello stabilimento, che sembra pietrificata sotto le luci bianche. Un’impostazione che viene poi perfezionata con un faccia a faccia molto più intimo, nella calma di una stanza, con Vojin che interroga Marina sulla sua infanzia e registra la conversazione. Poco a poco, è una sorta di seduta di terapia quella che viene fuori, con la donna che rivela per frammenti, con fatica e stimolata delicatamente dal suo interlocutore, le circostanze di uno stupro subito nella sua adolescenza ("ho smesso di piangere perché sapevo che era inutile; c'era sangue sulle mie cosce"). Una narrazione intervallata (o sovrapposta) da sequenze in cui il cieco vaga nei corridoi dell'hotel e scene che mostrano Marina pensierosa nella sauna o in bagno (mentre si lava, si "libera"...) prima che lasci il film e la scena, sostituita da un altro personaggio, un uomo che racconterà, allo stesso modo e dopo qualche curiosa digressione, come un insegnante trentenne lo abbia sedotto quando aveva solo 13 anni. E una terza testimonianza chiude il cerchio con un vecchio uomo che narra gli eventi della Seconda guerra mondiale e l’esilio volontario della sua famiglia per lavorare in Germania e poi a Lublino, dove era stata trasferita ("ci hanno dato da gestire un bar-ristorante, Le Sésame, che apparteneva a degli ebrei di cui non sapevamo nulla"), a due passi dal campo di sterminio di Majdanek. All’epoca ragazzino di 10 anni, ne percepiva la dimensione terrificante tramite i pezzi di pane, calpestati, che tentava di dare ai bambini ucraini deportati che camminavano davanti a casa sua, e i suoi ricordi culminano nella confessione di un contatto sessuale impostogli da un soldato.
Molto sofisticato sotto la sua apparente semplicità, composto da inquadrature fisse elaborate e suggestivi paesaggi sonori, Summerhouse scava metodicamente e sottilmente le dimensioni simboliche della scenografia e del testo. Intrigante e interessante, il film mette in scena in maniera molto realistica una trama psicoanalitica relativamente sottile che ruota attorno alla violenza sui bambini e che potrebbe iscriversi pienamente nel campo del documentario, ma che il regista impasta a tal punto da essere quasi impossibile indovinarne esattamente i dettagli. Un'opacità volontaria abilmente infusa (il personaggio principale registra per una trasmissione radiofonica, cosa che non è mai veramente esplicitata nel film), ma che passa per un ritmo piuttosto lento che bisogna accettare se ci si vuole lasciar catturare dal fascino strano e ascetico di questo lavoro ibrido.
Summerhouse è prodotto e distribuito da Spiritus Movens Production.
(Tradotto dal francese)
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