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VENEZIA 2018 Giornate degli Autori

Recensione: Graves Without a Name

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- VENEZIA 2018: Attraverso la ricerca delle tombe dei suoi familiari uccisi dai Khmer rossi, il cambogiano Rithy Panh riflette sulla memoria nel suo nuovo doc che apre le 15me Giornate degli Autori

Recensione: Graves Without a Name

Il racconto di un genocidio atroce, quello ad opera dei Khmer Rossi in Cambogia, e la ricerca dei resti dei propri familiari, delle loro anime erranti e spaventate. Si svolge su questi due piani il viaggio nella memoria, personale e del suo paese, che il regista cambogiano Rithy Panh compie nel suo nuovo documentario, Graves Without a Name [+leggi anche:
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intervista: Rithy Panh
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, presentato in apertura della 15ma edizione delle Giornate degli Autori di Venezia. Il regista, che nel 1975 fu deportato dalla capitale Phnom Penh, insieme ai suoi cari e ad altri due milioni di persone, e poi costretto ai lavori forzati nei campi dei Khmer Rossi, ha già ripercorso nei suoi lavori precedenti il passato terribile del suo paese (tra questi, L’Image manquante [+leggi anche:
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, vincitore al Certain Regard nel 2013 e candidato lo stesso anno all’Oscar del miglior film straniero). Ma stavolta, la narrazione si fa più intima, e lo stesso Panh compare nel suo film, da quando si fa rasare i capelli prima di un rito religioso all’inaspettata riunione spirituale con suo padre. 

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La spiritualità qui è molto forte e controbilancia la crudezza delle testimonianze che ascoltiamo, quelle di due vecchi contadini che con precisione rievocano le condizioni di vita disumane imposte all’epoca dai rivoluzionari comunisti, la violenza, le esecuzioni, gli stupri, in nome della lotta al capitalismo e di un’uguaglianza di fatto impossibile. La gente viveva nel terrore, i cittadini di Phnom Penh, incarnazione del regime di Lon Nol sostenuto invece dagli americani, venivano mandati nelle campagne a morire di fame, mentre contro di loro veniva scatenato anche l’odio dei contadini. La violenza è contagiosa, spiega uno dei testimoni, e nessuno lì si curava di dare una degna sepoltura ai morti: ce n’erano troppi. Rithy Panh, sopravvissuto allo sterminio poiché riuscì a fuggire in Thailandia e poi in Francia, cerca oggi suo padre, sua madre, le sue sorelle, i suoi nipoti, attraverso i rituali degli sciamani e affondando le mani nella terra. Le foto che ritraggono i membri della sua famiglia, in pace e sorridenti, compaiono e scompaiono, tra gli alberi e le fronde di una terra martoriata, e più le guardiamo, più un crimine di tale portata ci sembra feroce e inspiegabile.

Ma è il dialogo con le anime delle persone che non ci sono più, e che tuttavia sono intorno a noi, ad essere il centro del film, ed è questo che lo rende universale. Un dialogo necessario, secondo il regista, per dare a queste anime un luogo di riposo eterno, liberarle dalla paura e ritrovare insieme la pace. Quello stesso senso di pacificazione finale che lascia nello spettatore questo documentario d’autore pieno di poesia e trascendenza, sobrio e pacato nonostante l’orrore che racconta. 

Graves Without a Name è una coproduzione franco-cambogiana guidata da CDP - Catherine Dussart Productions. Le vendite internazionali sono gestite da Playtime. Subito dopo le Giornate degli Autori, il film volerà al Festival di Toronto.

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