email print share on Facebook share on Twitter share on LinkedIn share on reddit pin on Pinterest

SUNDANCE 2019 Concorso World Cinema Documentary

Recensione: La scomparsa di mia madre

di 

- Beniamino Barrese gira un doc su sua madre, la combattiva e iconica modella femminista di 75 anni Benedetta Barzini, per una riflessione sul potere dell’immagine

Recensione: La scomparsa di mia madre
Beniamino Barrese e Benedetta Barzini in La scomparsa di mia madre

“Non voglio comparire, voglio sparire”. Sarebbe difficile per chiunque girare un documentario con tali premesse, dichiarate dal soggetto stesso del film. Tanto più se il soggetto è una combattiva e iconica modella femminista di 75 anni come Benedetta Barzini. Con La scomparsa di mia madre [+leggi anche:
trailer
scheda film
]
- in concorso nella sezione World Cinema Documentary del Sundance Film Festival 2019 - Beniamino Barrese è riuscito invece a girare una tenera biografia di sua madre, vincendo la sua riluttanza ad essere ripresa. “Nessuno mi ha mai fotografato veramente, la mia faccia non è in vendita” dice in un’intervista di anni fa che fa parte del ricco materiale audiovisivo usato nel doc. Il trentenne fotografo e regista, ora al suo primo lungometraggio, gioca con atteggiamento naif a fare il figlio ossessionato dall’immagine della madre. “Ho speso tutta la mia vita a filmare e fotografarla”, scrive a inizio film. “Lei era la mia prima modella. Quando mi ha detto che aveva deciso di partire e non tornare più ho capito che non ero pronto per lasciarla andare”.

(L'articolo continua qui sotto - Inf. pubblicitaria)

Fotografata da mostri sacri come Irving Penn e Richard Avedon nella New York anni Sessanta, dove frequentava la Factory di Andy Warhol, Benedetta è poi tornata in Italia, per apparire sulla copertina del primo numero di Vogue Italia nel 1964. Anticonformista e ribelle alla famiglia ricca e altolocata, Benedetta è militante della sinistra radicale a Milano nei caldi anni 70, e ha poi accettato di insegnare all’Università di Urbino e al Politecnico di Milano. Oggi alle sue studentesse della NABA Nuova Accademia di Belle Arti di Milano dice cose di radicale anticapitalismo: “La storia dell’industria tessile e dell’abbigliamento è vergognosa”. Mostra delle pagine di pubblicità sulle riviste di moda “terribilmente simboliche di un’idea che si vuole mantenere della donna”, e domanda: Perché l’imperfezione dà tanto fastidio?”. Predica la non-bellezza dopo aver fatto i conti per 50 anni con la propria bellezza.

Si, ma perché voler andar via?, gli domanda il figlio-regista, che continua a cercare un’attrice che possa impersonare la madre in un casting infinito. “Voglio andare nel mondo contrario a quello che ho vissuto fino adesso, in cui tutto sembra essere delegato all’immagine e non alla memoria. Mi interessano le cose che non si vedono”. Insomma Benedetta vuole un’isola deserta, senza carta di credito e conti in banca, né telefono o computer. Lui la segue ovunque con la videocamera, lei si mostra a volte scostante, a volte partecipativa. E’ suo figlio. Eccoli al Teatro Dal Verme di Milano dove il sindaco le conferisce la medaglia d’oro di benemerenza civica. O a sfilare assieme alle modelle diciottenni alla Fashion Week di Londra. Un giorno viene a farle visita Lauren Hutton, la mitica modella e attrice americana, interprete di American Gigolo. Lauren è sua coetanea, sono nate entrambe nel 1943, non si vedono da 50 anni e la Hutton ricorda come facesse la modella solo per pagarsi i viaggi con il boyfriend e lo fa ancora perché “è come una miniera di diamanti, meglio che fare film!”.

Benedetta ribadisce la sua decisione di “andare via da quest’uomo bianco che ha devastato il mondo”. Parole che possono risultare poco credibili o ridicole. Quando alla fine il figlio le chiede di mettere in scena la sua partenza, lei rifiuta. L’unica scena che le piacerebbe girare a quel punto “è la rottura della tua videocamera”. Un gioco tra madre e figlio che può essere visto soltanto come documento della vita di una leggenda vivente in costante fuga e piccola riflessione sul potere dell’immagine.

Sviluppato al Dok.Incubator Workshop 2018, il film è prodotto da Nanof in collaborazione con Rai Cinema e coprodotto da RYOT Films (Stati Uniti). Le vendite sono affidate a Autlook Films.

(L'articolo continua qui sotto - Inf. pubblicitaria)

Ti è piaciuto questo articolo? Iscriviti alla nostra newsletter per ricevere altri articoli direttamente nella tua casella di posta.

Privacy Policy