Recensione: Farewell Paradise
- Il primo lungometraggio di Sonja Wyss è un documentario autobiografico che esplora ambiguità ed emozioni di una famiglia svizzera
Uno dei film della sezione Limelight nell'ultima edizione del Festival di Rotterdam è Farewell Paradise [+leggi anche:
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scheda film] di Sonja Wyss. La forma che prende è quella di un documentario intimo che tenta di ricomporre un vissuto comune andato in pezzi, a partire da una vecchia foto di famiglia della regista da piccola, scattata dal padre Ueli, che abbandona le isole Bahamas insieme alla madre e alle tre sorelle. Il motivo della partenza improvvisa è un matrimonio allo sfascio che disperde i membri della famiglia in un abisso di incertezza.
Grazie alla messa in scena piuttosto scarna (assenza di voce narrante, poca musica se non nel finale), che alterna i singoli protagonisti che si confessano di fronte alla macchina da presa a foto di archivio, Sonja Wyss mantiene la delicatezza necessaria a raccontare una storia privata, di dolore e crescita. Una storia che deve fare i conti con le variabili umane, economiche e sociali a cui sono esposti i nuclei familiari composti da sole donne.
Ciascuna delle figlie descrive ambienti, sensazioni e paure di un passaggio di vita cruciale e fortemente simbolico come appunto l’addio del paradiso Bahamas per la Svizzera che coincide con l’addio al sogno di una famiglia unita. Il ritmo del film è puntellato da brevi scene di paesaggi invernali e, così come i suoi personaggi femminili, ha un’insolita e armoniosa calma che si espande per tutta la sua durata: in ogni conversazione a due c’è spazio per la vita, per delle riflessioni su ciò che è stato e ciò che sarà. Nell’ultima parte infatti subentrano i mariti e i nipoti a fare la diagnosi del presente ricomponendo così degli imperfetti ritratti di famiglia.
Se l’intento del film è terapeutico e il lieto fine implicito, l’importanza di quest’opera si rivela nel coraggioso approccio della regista a materiali così personali, evitando la messa in mostra di sentimentalismi e imbarazzanti rese dei conti per rivelare tutta la dignità del dolore.
Nonostante l’attenzione a non macchiare l'intimità familiare di autoreferenzialità, raramente questa storia privata diventa storia sociale e ci sono pochi accenni a persone esterne alla famiglia o all'isolamento che una madre single e le sue figlie abbiano sofferto nel proprio condominio. Inganna il fatto che l’imputato principale sembra essere il padre Ueli, perché. in realtà la protagonista è cresciuta con lui, nonostante i dialoghi assumano la forma di riflessioni piuttosto che di accuse
Quindi non è una critica frontale alla patriarchia, quelle di Sonia Wyss, anche se vi si rivela col tempo: grazie al suo stile minimale, che predilige un lavoro di ricamo paziente, in Farewell Paradise vengono affrontate ossessioni e colpe paterne, legami umani e familiari che culminano in un finale a metà tra il nostalgico e liberatorio.
Il film è prodotto da Simone van den Broek per Basalt Film che si occupa anche delle vendite internazionali.
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