Recensione: Nasim
- Il secondo lungometraggio per entrambi i co-registi Arne Büttner e Ole Jacobs è un documentario intimo e un resoconto schiacciante del fallimento dei diritti umani in Europa

Prima che fosse bruciato nel 2020, numerosi servizi televisivi e documentari sono stati realizzati nel campo profughi più grande d'Europa, Moria, sull'isola greca di Lesbo. Ma Nasim, diretto dai registi tedeschi Arne Büttner e Ole Jacobs, che ha avuto la sua prima internazionale a Hot Docs, si distingue per il suo approccio mite e umanistico e per il fatto che sia stato girato quando sono scoppiati gli incendi.
Büttner è accreditato anche come direttore della fotografia, Jacobs al suono ed entrambi come montatori insieme a Janina Herhofer: una squadra più numerosa non sarebbe stata in grado di cogliere tutti i momenti intimi della storia di Nasim, una rifugiata afgana dall'Iran che si trova a Moria con il marito Shamsullah, il piccolo Alireza e il figlio adolescente Mohammed, oltre che alla sua famiglia, che comprende sua madre e sua sorella.
Ora 38enne, Nasim è stata costretta a sposare suo marito quando lei aveva solo 13 anni. Era un membro dei Mujaheddin che combattevano i sovietici e lei inizia a scoprire cose del suo passato solo quando si preparano per un colloquio di asilo. Spinta dalla schietta sorella, sta timidamente valutando il divorzio e la liberazione da un matrimonio senza amore, uno dei rari vantaggi di cui le donne musulmane posso usufruire nella loro terribile situazione in Europa.
Shamsullah, orgoglioso della sua abilità nel pugilato e nel fare i massaggi, in verità pessimi, non sembra un cattivo ragazzo, ma non riusciamo a vedere gran parte della loro reale interazione, al di là della preparazione per l'intervista e una piccola discussione su una pentola. Si trova, probabilmente per la prima volta, in una posizione d’inferiorità: il fatto che Nasim sappia leggere e scrivere, e che a volte faccia da sostituto non ufficiale di un insegnante, le dà in questa situazione un vantaggio sul marito analfabeta.
Nasim è davvero a un bivio. Alireza odia i corsi di boxe a cui lo ha iscritto suo padre, e Mohammed ha iniziato a fumare, esce con ragazzi che la sua famiglia non approva e vuole scappare ad Atene. Nasim soffre di una malattia che spesso le rende difficile l’utilizzo delle mani e una scena particolarmente toccante vede Alireza che l'aiuta ad allacciarsi i lacci delle scarpe. Quando viene menzionato l'apprendimento dell'inglese, Nasim dice che non può farlo, a causa della sua "testa incasinata", ma non c'è niente di sbagliato in lei, per quello che lo spettatore può vedere.
Anzi, i co-registi hanno trovato una donna coraggiosa e gentile, curiosa e timida, con un forte senso della giustizia ma ancora gravata da un senso di responsabilità secondo le consuetudini patriarcali. È difficile non provare sentimenti per questo personaggio con il suo spirito apparentemente invincibile nelle circostanze più difficili. A Moria c’è una protesta nazionalista greca e presto seguono gli incendi. Il documentario non ce lo dice, ma Google sì: quattro rifugiati afgani minorenni sono stati alla fine condannati a dieci anni di carcere dopo un processo precluso ai media a causa delle misure del COVID.
Il fatto che il documento sia stato girato durante il COVID serve a mettere ancora più a nudo il disprezzo dell'Europa per i diritti umani. Immaginate se le misure vi venissero applicate mentre vivete in tali condizioni, al contrario della popolazione normale. Combinato con la storia di Nasim, in cui i co-registi riescono a trovare veri momenti di poesia all'interno del luogo infernale che era Moria, il film è un resoconto schiacciante del vergognoso record del continente.
Nasim è coproduzione tra le tedesche Uebl GbR e Rosenpictures Filmproduktion GbR.
(Tradotto dall'inglese)
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