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LONDRA 2022

Recensione: Inland

di 

- Il giovane regista Fridtjof Ryder realizza un lungometraggio d'atmosfera, allo stesso tempo inquietante e sorprendentemente caldo

Recensione: Inland
Mark Rylance e Rory Alexander in Inland

Partendo dalla tradizione social-realista del Regno Unito, Inland [+leggi anche:
intervista: Fridtjof Ryder
scheda film
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di Fridtjof Ryder, presentato in anteprima al BFI London Film Festival, è tra gli ultimi esempi di lavoro di un giovane regista britannico che osa giocare con la forma e le regole drammaturgiche tradizionali.

La nostra guida in questa opera prima d’atmosfera è un giovane senza nome (Rory Alexander) attraverso la cui soggettività seguiamo la storia. Tuttavia, essa si rivela presto strana anche per lui, deformata da ricordi, desideri e traumi tanto misteriosi quanto spaventosi. Lo vediamo per la prima volta mentre viene dimesso da un ospedale psichiatrico, uno dei pochi segni del mondo reale e concreto nel film; quando poi stabilisce una sua routine, lavorando in un garage con la figura paterna Dunleavy (Mark Rylance), quella realtà concreta viene presto oscurata dai meccanismi della sua stessa immaginazione.

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L'impressione durante tutto Inland è quella di galleggiare, con i piedi mai completamente piantati a terra; di lasciarsi trasportare da paure e dolori che sembrano molto più intimi e veri della realtà. L'aspetto generale del film non è molto lontano dai drammi social-realisti, e nemmeno le interpretazioni del piccolo cast, ma la realtà rappresentata sembra in gran parte spiacevole, persino deludente. I voli di fantasia del giovane sono più stimolanti, appassionati e gratificanti, anche se lo portano a stati di totale disperazione.

Arriviamo progressivamente a capire che la fonte del suo trauma è sua madre, scomparsa anni fa ma che era strana molto prima di allora. Le immagini della foresta nel Gloucestershire, il verde brillante che emerge dalla totale oscurità, sono accompagnate da una voce femminile roca, che racconta storie poco coerenti di creature del bosco e parla in modo criptico ma severo di ciò che lei e suo figlio devono fare. Queste parole perseguitano ancora l'uomo tranquillo, che presto comincia a vedere intorno a sé echi e riflessi di sua madre. Al bordello locale, non vede donne, ma statue di alabastro che fluttuano in un vuoto nero che ricorda niente di meno che Twin Peaks di David Lynch. Una di esse sembra parlargli come sua madre, e lui è sempre più frustrato nei suoi tentativi di ottenere risposte da lei.

Le composizioni espressive ma mai troppo determinate del film, il montaggio ritmato e impressionista di Joe Walton e Lincoln Witter, e l'avvolgente fotografia di Ravi Doubleday, evocano sapientemente il tumulto interiore del protagonista, le cui correnti lo risucchiano sempre più in uno stato di completo distacco dalla realtà. Ma ciò che contraddistingue Inland è la presenza nel suo mondo dell'elemento più inaspettato: la speranza. La performance calda ed espressiva di Mark Rylance nei panni di Dunleavy è simile al suo lavoro in altri titoli recenti, ma qui assume un significato completamente nuovo. Nel contesto monotono della vita quotidiana, dove si è tentati di lasciarsi prendere anche dalle ossessioni più cupe, Dunleavy rappresenta un'alternativa inaspettata e commovente. Piuttosto che comportarsi come se tutto andasse bene intorno al giovane, Dunleavy accetta il fatto che sta lottando. Piuttosto che arrabbiarsi, gli dice che anche lui conosce il dolore che sta soffrendo. E invece di offrire false rassicurazioni, gli mostra che c'è un modo per convivere con tutto questo. Allo scoperto, questo dolore che una volta sembrava così personale e intimo improvvisamente appare molto meno intimidatorio. Trovare connessioni non con i ricordi, ma con le persone, ora sembra possibile. In un istante, la realtà e il momento presente iniziano a fare sentire che vale la pena restare.

Inland è prodotto dalla britannica Black Twist Films. Le vendite internazionali sono guidate da Wide Management.

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(Tradotto dall'inglese)

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