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BERLINALE 2023 Panorama

Recensione: The Quiet Migration

di 

- BERLINALE 2023: Malene Choi riesce a dire molto nel suo nuovo film, in pochissime parole

Recensione: The Quiet Migration
Cornelius Won Riede-Clausen in The Quiet Migration

Presentato nella sezione Panorama della Berlinale, The Quiet Migration [+leggi anche:
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di Malene Choi merita di essere considerato una delle sorprese del festival. Una piccola scoperta, sia chiaro, visto che si tratta di un film che non dà nell'occhio, che aspetta silenziosamente in un angolo che qualcuno lo noti. Un po' come il suo timido protagonista, Carl.

Carl (Cornelius Won Riedel-Clausen) è stato adottato. Non c'è bisogno di dirlo ad alta voce, perché è chiaro: nella campagna danese dove vive con i suoi genitori, non c'è nessun altro che gli somigli, nemmeno un po'. In realtà, non c'è proprio nessuno lì, a parte un lavoratore stagionale polacco, felice di bersi qualche bicchierino la sera. È difficile dire se Carl sia davvero infelice, ma è solo e rassegnato, come se stesse già aspettando la frase "torna da dove sei venuto". Inutile dire che arriva. Arriva sempre.

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Nella sua chiacchierata con Cineuropa, Choi, di origine coreana, ha ammesso di parlare di qualcosa che conosce fin troppo bene: la sensazione di non appartenere, né alla Corea del Sud né alla Danimarca, di essere l'escluso. I genitori di Carl (Bjarne Henriksen e Bodil Jørgensen, visti di recente in The Kingdom Exodus [+leggi anche:
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) cercano di essere rispettosi, incoraggiandolo ad andare a scoprire il suo luogo di nascita. Ma sono anche protettivi, supervisionano ogni sua mossa - dopo tutto, dovrebbe prendere in mano la fattoria di famiglia, anche se non sembra appartenere nemmeno a quel luogo, poverino, completamente perso tra quelle mucche giganti.

Choi riesce a trovare molto umorismo in questa tenera storia: anche il disagio e l'imbarazzo di Carl sono dannatamente divertenti. Circondato da gente comune e da bandiere danesi, sembra essere stato photoshoppato nelle sue inquadrature. Non c'è da stupirsi che si rivolga ad amici immaginari per trovare conforto, come la ragazza che una volta gli ha mostrato un po' di gentilezza. La sua sagoma fantasma, seduta accanto al tavolo di famiglia, gli dà forza. Infine, c'è qualcun altro che gli somiglia, qualcuno che - o almeno così crede - capisce tutto ciò di cui non riesce a parlare.

Il dramma sociale - o un'altra interpretazione della "solitudine in campagna", tanto amata dai festival europei di questi tempi da meritare una sezione a sé stante - si trasforma qui in qualcosa di più poetico, di più misterioso. Carl continua a sognare a occhi aperti, a fuggire nella sua testa. Non c'è da stupirsi: in questa famiglia c'è amore e buone intenzioni, ma ci sono anche segreti e mancanza di trasparenza. In poche parole, nessuno si apre su nulla, che si tratti di malattia o di dolore, finché possono evitarlo.

Questo silenzio e il ritmo lento del film potrebbero mettere alla prova alcuni. Ma si addicono a questo universo isolato costruito su faccende ripetitive, così come al particolare atteggiamento di Carl. Non sta scappando da nessuna parte - è bloccato, come in quei sogni in cui non riesci a muoverti, non importa chi o cosa ti stia inseguendo o quanto ci provi a farlo. A volte viene voglia di scuoterlo, solo per vederlo reagire, ma viene anche voglia di abbracciarlo.

Choi ha scritto The Quiet Migration con Sissel Dalsgaard Thomsen. Manna Film (Danimarca) lo ha prodotto, e le sue vendite internazionali sono gestite da TrustNordisk.

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(Tradotto dall'inglese da Alessandro Luchetti)

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