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BERLINALE 2023 Forum

Recensione: Where God Is Not

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- BERLINALE 2023: Nel primo dei suoi due documentari proiettati a Berlino, Mehran Tamadon ricrea le orribili esperienze di tre ex prigionieri politici iraniani, con un risultato discutibile

Recensione: Where God Is Not

Il regista iraniano con base a Parigi Mehran Tamadon è presente quest'anno alla Berlinale con una sorta di dittico. Nei due documentari Where God Is Not [+leggi anche:
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, in anteprima mondiale nella sezione Forum, e My Worst Enemy [+leggi anche:
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, presentato nella sezione Encounters, parla con ex prigionieri politici iraniani che ora vivono a Parigi. Dopo Iranian [+leggi anche:
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(Forum della Berlinale 2014) e Bassidji [+leggi anche:
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(vincitore di Ji.hlava nel 2009), in cui ha cercato di creare un dialogo con i sostenitori del regime, Tamadon è interessato a un cinema di confronto e interventista che inevitabilmente produce risultati controversi.

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Per Where God Is Not, il regista ha invitato tre ex detenuti a parlare delle loro esperienze nelle famigerate prigioni di Evin e Ghezel Hesar. Uno di loro è Taghi Rahmani, "il giornalista iraniano più frequentemente incarcerato". Secondo Reporters Without Borders, e come possiamo anche capire quando il film inizia con lui e Tamadon che parlano animatamente e di buon umore per le strade di Parigi, è difficile prevedere dove ci porterà. Ben presto, però, arrivano in un magazzino che funge da controfigura per le celle e le sale delle torture, dove Rahmani si rivelerà il più articolato e filosofico degli intervistati.

Un altro protagonista è Mazyar Ebrahimi, l'unico dei tre che ci racconta esattamente come è finito in prigione: proprietario di una società di noleggio di apparecchiature video, è stato accusato di essere una spia dalla concorrenza legata al regime. Uomo grande e grosso, spiega a Tamadon che il fragile letto di metallo che ha come oggetto di scena, non reggerebbe agli orribili metodi di tortura subiti, quindi lo aiuta saldandovi sopra un'altra struttura più robusta. La testimonianza di Ebrahimi è la più fisica e dettagliata, poiché lega il regista nella posizione del "fagotto": sdraiato sulla pancia, con le mani dietro la schiena, incatenato alle gambe ricurve. Descrive varie metodi di tortura che il prigioniero è costretto a subire, tra cui i piedi frustrati con un cavo elettrico.

Il terzo personaggio è Homa Kahlori, prigioniera negli anni '80 che in seguito ha pubblicato il libro "A Coffin for the Living" sulla sua esperienza. La "bara" si riferisce a un metodo di tortura ideato da un interrogatore famoso per la sua crudeltà, e lei e Tamadon ricreano la stanza in cui veniva eseguito. All'inizio, i suoi ricordi descrivono la solidarietà e il sostegno reciproco delle donne, ma ben presto si trasformano nella parte più devastante del film.

L'ambientazione claustrofobica e la macchina da presa intuitiva e reattiva di Patrick Tresch ci immergono in questo quadro dolorosamente convincente delle orribili esperienze dei protagonisti, ma il dolore appartiene solo a loro. Il regista e lo spettatore ne hanno solo un assaggio, così intenso che ci rendiamo conto di non poter comprendere le loro emozioni o la sofferenza ormai vissuta. Questo è il principale punto di vista etico del film e può essere un'aggiunta significativa all'importante e sempre attuale conversazione sulla responsabilità del documentarista.

Tamadon ha pensato che questo film fosse rivolto ai carnefici: se lo avessero visto, avrebbe dovuto confrontarsi con i loro crimini e riflettere su di essi. Naturalmente, ciò suona ingenuo e ancora più controverso se associato alle preoccupazioni elaborate in precedenza, dando allo spettatore ulteriori spunti di riflessione e carburante per l'indignazione, ma non ci sono dubbi che il regista sappia cosa sta facendo.

Where God Is Not è una produzione di L'atelier documentaire, con base a Bordeaux. Andana Films ne gestisce i diritti internazionali.

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(Tradotto dall'inglese da Alessandro Luchetti)

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