Recensione: A passo d’uomo
- Il film di Denis Imbert tratto dall’autobiografia dell’esploratore-scrittore Sylvain Tesson mostra, senza particolare originalità, come la natura possa riparare ferite profonde

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scheda film] - Premio della Giuria a Cannes, candidato a 14 David di Donatello, oltre 6 milioni di euro al box office italiano - ha aperto la caccia da parte di produttori e distributori alle storie che si sviluppano su un piano inclinato, storie che salgono ad alta quota, alla ricerca di se stessi, storie che celebrano la bellezza del mondo. Il Trento Film Festival - dal 1952 riferimento assoluto per il cinema e le culture di montagna - ha fatto la scelta giusta per aprire la sua 71 edizione (dal 28 aprile al 7 maggio). Interpretato dal premio Oscar Jean Dujardin, A passo d’uomo di Denis Imbert è da tre settimane nelle sale francesi con Apollo Films (quasi 900mila ingressi ad oggi) ed è stato acquisito da Wanted Cinema, che lo distribuirà in Italia ad ottobre 2023.
Il film è liberamente tratto dall’omonimo libro autobiografico best seller dello scrittore francese con la passione per le esperienze estreme e i viaggi in solitaria Sylvain Tesson, già protagonista de La panthère des neiges [+leggi anche:
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scheda film] (Premio César 2022 come Miglior Documentario). E liberamente la star Dujardin si cala nei panni di Pierre, celebre esploratore-scrittore sempre in cerca di avventure, che una sera è vittima di un incidente che lo riduce in fin di vita. Quando si risveglia dal coma, promette a sé stesso di ripartire e questa volta per attraversare la sua Francia a piedi, dal Mercantour al Cotentin, lungo sentieri dimenticati (1.300 km!). Un viaggio anche interiore, per domare e riappropriarsi di un corpo ridotto in pezzi.
In realtà il film di Imbert - al suo terzo lungometraggio da regista dopo una commedia, un film d’avventura per ragazzi e una serie tv family - co-sceneggiato con Diastème, ambisce ad essere la dimostrazione di come il contatto diretto, assoluto, esclusivo ed impervio con la natura possa riparare, lenire ferite profonde, “chiudere i capitoli negativi” della vita, come si dice nel film. E ci riesce, anche senza inventare niente di cinematograficamente nuovo o particolarmente sconvolgente, e pure evitando la cartolina di una Francia turistica e accogliente.
Il protagonista non è particolarmente simpatico, il suo comportamento da guascone lo ha fatto banalmente cadere da una finestra, un volo che lo ha lasciato con le ossa rotte e delle vistose cicatrici sul viso: la gente lo guarda con imbarazzo e questo rende tutto sommato più umano quest’uomo colpito da attacchi epilettici. Nell’attraversare quel panorama aspro, inospitale e bellissimo (la “hyper-ruralité”), accompagnato per alcuni tratti da amici (Jonathan Zaccaï), erranti come lui (Dylan Robert) e dalla sorella (Izïa Higelin), Pierre è concentrato su se stesso e appunta sul taccuino frasi che nessun editore con il senso del limite accetterebbe (“Una fidanzata che non delude mai: la libertà”). È la prosa di Tesson che risulta spesso autocompiaciuta, da individualista ecologico anti-progresso, da conservatore escapista (“Napoleone ha detto che ci sono due tipi di uomini, quelli che comandano e quelli che obbediscono. Aveva dimenticato gli uomini che fuggono. Fuggire è comandare! Comandare al destino di non avere più presa su di te”). La boschiva essenzialità waldeniana di Into the Wild di Sean Penn è lontana.
Ma il Pierre di Jean Dujardin è anche aperto agli incontri casuali e fugaci che potrebbero arricchirlo: un uomo nella piazza di un paese, una giovane pastora in montagna, e Yves, un vero contadino di Aubrac, colpo di genio del regista: il film si fa quasi documentario, si presta a riflessioni su certi mali di oggi, come lo spopolamento dei piccoli centri montani e l’impoverimento del lavoro contadino.
A passo d’uomo è prodotto da Radar Films in coproduzione con TF1 Studio, La Production Dujardin - JD Prod, Apollo Films, Echo Studio, France 3 Cinéma, Auvergne Rhône Alpes Cinéma. Newen Connect si occupa delle vendite internazionali.
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