Recensione: Hawar, nos enfants bannis
- Pascale Bourgaux traccia il singolare ritratto di Ana, sopravvissuta due volte: come vittima dei jihadisti e della sua comunità

Hawar, nos enfants bannis [+leggi anche:
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scheda film], che esplora il destino riservato alle donne yazide rapite dai jihadisti e minacciate di essere ostracizzate dalla loro comunità per aver dato alla luce bastardi Daesh, è stato presentato questo fine settimana in Concorso nazionale a Visions du Réel. Pascale Bourgaux ha una lunga esperienza nel documentario, focalizzata per molti anni sulle zone di conflitto, più specificamente in Medio Oriente. Hawar è il risultato di oltre otto anni di lavoro, ricerca e incontri con donne yazide rapite e stuprate dai jihadisti dell'Isis. Un percorso iniziato quasi un decennio fa e che si basa su altri due documentari: Femmes contre Daesh (2016) e Femmes yazidies: le combat pour la liberté (2014), uscito all'inizio di quello che oggi è riconosciuto come un genocidio, quando l'Isis invade l’Iraq dalla Siria. Mentre molti uomini vengono sterminati, le donne sono spesso mantenute in vita e ridotte allo status di schiave sessuali.
Il film raccoglie la testimonianza di Ana, che osa rompere il silenzio, e mette in luce il doppio esilio di cui è vittima: prima il rapimento da parte dei jihadisti, poi il rifiuto della propria comunità quando intende tenere con sé il suo bambino, "figlio del nemico". Ana ricorda il giorno in cui gli eserciti di Daesh hanno fatto irruzione nel suo villaggio, rapendo donne e ragazzine, nascondendole in transito a Mosul, prima di parcheggiarle in Siria. Lì, le donne sono soggette a una lotteria, ciascuna viene assegnata a un combattente, diventando il suo oggetto sessuale. Lo stupro diventa quindi una routine.
Quasi 2.000 donne yazide sono così tenute in schiavitù. Violentate ripetutamente, molte di loro rimangono incinte. Al loro rilascio, queste donne vengono reintegrate nella comunità yazida nonostante la loro “impurità”. Una cerimonia che offre loro una sorta di nuovo battesimo e le rende idonee a tornare dai loro cari, a condizione che rinuncino ai propri figli, visti come "esseri nocivi", figli di "padri ripugnanti". Molte di queste donne chinano il capo e ritornano all'ordine patriarcale stabilito dal comando religioso della comunità. Alcune però scappano, come Ana, che seguiamo di nascosto mentre va a cercare sua figlia Marya, che è stata accolta dai nonni paterni.
Camminiamo alle spalle di Ana, di cui la regista mantiene l'anonimato, al ritmo della sua struggente testimonianza, osserviamo con lei i paesaggi desertici che attraversa nel corso del film, come un'eco della sua solitudine forzata, della sua maternità negata.
Tra una tappa e l’altra, incontriamo altre donne, altre storie, come quella di una madre esiliata in Australia, che è fuggita dalla sua famiglia per ritrovare i suoi figli in Iraq, o quella di una direttrice di un orfanotrofio che, insieme a un ex diplomatico americano, orchestra il ricongiungimento tra madri addolorate e figli perduti.
La singolare storia di Ana, che si snoda per tutta la durata del film o quasi, prima di vedere alcune ore della sua vita quotidiana e alcuni minuti sullo schermo con sua figlia, illustra il lungo, doloroso e talvolta pericoloso viaggio intrapreso da queste madri coraggio per ritrovare i propri figli. E la mancata accettazione nella comunità yazida permette di restituire, davanti agli occhi del mondo, l'identità ai bambini la cui esistenza era stata negata e alle donne in fuga dichiarate scomparse.
Hawar, nos enfants bannis è prodotto da Iota Production (Belgio) e Louise Productions (Svizzera). Il film è venduto nel mondo da CAT&Docs.
(Tradotto dal francese)
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