Recensione: Caiti Blues
- La coproduzione franco canadese di Justine Harbonnier ci racconta il quotidiano di Caiti, musicista e cameriera a tempo perso, che tenta di riprendere in mano la sua esistenza

Il primo lungometraggio della regista francese Justine Harbonnier, presentato in prima mondiale a Visions du réel nella sezione Burning Lights, proiettato al Hot Docs e selezionato per l’ACID al prossimo Festival di Cannes, colpisce nel profondo ricordandoci che per trovare la verità bisogna guardarsi dentro, anche se non è facile e può fare male. Grazie ad un personaggio al contempo carismatico e toccante che sembra uscire direttamente dalla mente dei fratelli Safdie, Caiti Blues [+leggi anche:
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scheda film] ci permette di scoprire realtà che Trump vorrebbe non esistessero. Justine Harbonnier ridà dignità e poesia a hippie e marginali di ogni sorta, una famiglia alternativa all’interno della quale Caiti sembra aver trovato il suo posto.
La voce potente e lenitiva di Caiti Lord, musicista trentenne che lavora come cameriera per sbarcare il lunario, accompagna gli ascoltatori e le ascoltatrici della radio locale di Madrid, in Nuovo Messico. Originaria di New York ma trasferitasi un po’ per caso in questa piccola cittadina di hippies nel Sud-Est degli Stati Uniti, Caiti cerca di dare un senso ad una vita che gli sfugge di mano. Tra un brano e l’altro, confessa al suo pubblico le difficoltà che deve affrontare quotidianamente nel bar dove lavora, le sue angosce profonde o semplicemente la paura di non farcela. Lontana anni luce dal raggiungimento di un sogno americano che diventa assurda chimera, la protagonista di Caiti Blues cerca di ribellarsi all’assurdità di una vita che comincia ad andargli stretta. La sua infanzia e adolescenza newyorkese, dominate da paillettes e commedie musicali, spettacoli DIY nei quali giocare il ruolo della diva o corsi di canto lirico sono ormai un ricordo lontano.
Come molti e molte giovani statunitensi, Caiti cerca come può di rimborsare un prestito universitario che non fa che aumentare a causa dell’inflazione. A trent’anni, dopo essersi brutalmente confrontata con un mondo dove sopravvivere in quanto artista è sempre più difficile, Caiti decide di cambiare registro musicale (ma non solo): il blues sarà il suo credo. Il freddo invernale e i toni pastello della natura circostante sostituiscono le luci accecanti di New York facendole ritrovare il contatto con la natura che aveva perso. Attorniata da outsiders che rifiutano, come lei, di piegarsi al motto capitalista “volere è potere”, Caiti cerca la propria verità interiore, il fuoco sacro che trasforma l’arte in atto catartico.
Justine Harbonnier ci mostra l’intimità di Caiti senza falsi pudori: le ore passate davanti al microfono della radio indipendente locale, nel bar dove lavora, tra le mura rassicuranti di casa sua mentre dorme con il suo cane o compone le sue canzoni o ancora mentre cerca di dimenticare i problemi del quotidiano tra le braccia delle sue amiche drag queens. La vita della protagonista è raccontata e custodita nei testi delle sue canzoni. Attraverso questi diari intimi nei quali sublima un reale a tratti soffocante, Caiti ci parla di temi universali quali l’accettazione di sé, il peso delle norme sociali e la difficoltà di trovare il proprio posto in una nazione ideologicamente oppressiva e conservatrice.
Caiti Blues è uno di quei “feel good movies” che ti fanno capire che va bene essere un outsider, che la fama non è per tutti e tanto meglio così. Senza giudizi ne falsi moralismi, Justine Harbonnier eleva Caiti al rango di guru di tutti e tutte quelle che si ribellano facendo valere il loro sacrosanto diritto a essere “anormali”.
Caiti Blues è prodotto da La Cinquième Maison (Quebec) con Sister Productions (Francia) e venduto all’internazionale dalla canadese Les Films du 3 Mars.
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