Recensione: Stranizza d’amuri
- L’esordio alla regia di Giuseppe Fiorello è il racconto sobrio di un amore proibito, quello tra due ragazzi adolescenti, nella Sicilia omofoba degli anni ’80

Fresco vincitore di un Nastro d’argento per il miglior esordio (leggi la notizia) e di un Globo d’oro per la miglior opera prima (leggi la notizia), proiettato di recente al Festival internazionale del cinema di Karlovy Vary e scelto come titolo d’apertura dell’imminente Ortigia Film Festival, in Sicilia dal 15 al 22 luglio, Stranizza d’amuri [+leggi anche:
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scheda film] colleziona un riconoscimento dopo l’altro. Con il suo primo film da regista, il popolare attore Giuseppe Fiorello, star delle fiction tv targate Rai (al cinema ha lavorato con Ozpetek, Crialese, Tornatore, fra gli altri), ha voluto riportare alla memoria un tragico fatto di cronaca, ossia l’uccisione di due ragazzi che si amavano nella Sicilia degli anni ’80, il cosiddetto delitto di Giarre, rimasto impunito. E il risultato di questo primo esperimento dietro la macchina da presa di Fiorello jr (suo fratello maggiore è il notissimo showman Rosario Fiorello) è un film sobrio, di indiscutibile valore civile, ma la cui trama, spalmata su oltre due ore di durata (forse troppe), non sempre riesce a tenere incollato lo spettatore.
Ci mette un po’ a entrare nel vivo della storia questo Stranizza d’amuri, il cui titolo è un omaggio al compianto cantautore catanese Franco Battiato e alla sua omonima canzone, le cui bellissime note risuonano, nel film, come una carezza. Siamo nella Sicilia del 1982, durante i mondiali di calcio in cui trionfò l’Italia. Da una parte c’è Gianni (Samuele Segreto), schernito dai bulli di paese per le sue tendenze omosessuali, e che quando torna a casa trova una situazione anche peggiore, con sua madre (Simona Malato) succube del suo nuovo compagno (Enrico Roccaforte), il quale, in cambio di un lavoro per Gianni nella sua officina e di un tetto sopra la testa per entrambi, esercita tutto il suo sgradevole potere su madre e figlio. Dall’altra parte c’è Nino (Gabriele Pizzurro), che sembra un angelo, ha una bella chioma riccia e una famiglia affettuosa e accogliente: il padre (Antonio De Matteo) rifornisce di fuochi d’artificio tutte le sagre e feste patronali della zona, e la madre (Fabrizia Sacchi) è sempre pronta ad aggiungere un posto alla loro gioiosa tavola.
Il film si prende tutto il suo tempo per restituire un affresco del profondo Sud negli anni ’80: gli uomini che passano le giornate al bar sala giochi, le canzoni dell’epoca che risuonano dalle radio gracchianti, gli iconici motorini Sì e Ciao della Piaggio, e soprattutto la mentalità arcaica, i pregiudizi. Un giorno, Gianni e Nino si incontrano, o meglio, si scontrano con i loro rispettivi motorini; Nino si sente in colpa per aver tagliato la strada a Gianni, così poi lo cerca, lo invita a casa sua, gli offre un lavoro. Tra i due ragazzi nasce una bella amicizia, Gianni torna a sorridere, comincia a intravedere una vita diversa, per sé e sua madre. Anche quest’ultima torna a sorridere, mentre la vediamo in un’intensa scena, in casa, a ballare con suo figlio: la felicità è contagiosa. L’amicizia tra i due ragazzi è già diventata qualcosa di più, e non si nascondono. Non hanno paura, sono innamorati e si fanno vedere insieme. La gente comincia a mormorare, e le reazioni peggiori arrivano proprio da chi non ti aspetti.
“Quello che si fa di nascosto, si può fare per cent’anni”, dice qualcuno, più scaltro, durante il film. Invece, Gianni e Nino (nella realtà si chiamavano Giorgio e Toni) hanno scelto di viversi questa loro “stranizza” alla luce del giorno. Il resto è storia. A seguito del delitto di Giarre, avvenuto nel 1980, nacque in Italia, a Palermo, il primo circolo Arcigay.
Stranizza d’amuri è una produzione IblaFilm, Fenix Entertainment con Rai Cinema, ed è venduto da Pulsar Content.
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