Recensione: Made in Dublin
- Il debutto di Jack Armstrong tenta di scavare in profondità nel mondo perverso dello showbiz, focalizzandosi su un gruppo di personaggi bizzarri, ma alla fine perde la presa

Il primo lungometraggio di Jack Armstrong, intitolato Made in Dublin, è un buon esempio di come la creazione di personaggi interessanti possa non essere sufficiente per creare una storia avvincente. Il film, presentato in anteprima mondiale al Galway Film Fleadh di quest'anno, tenta di scavare a fondo nel mondo perverso dello showbiz focalizzandosi su un gruppo di individui folli e loschi: il regista premio Oscar Brendan Bloom (interpretato dal veterano Paudge Behan), dipendente dall'alcol e dalle droghe, la sua bella moglie “fuoriserie” Martha Laine (Maria Branagan); l'aspirante attore disperato Finn O'Connor (Stuart Cullen), che serve ai tavoli di un ristorante di lusso di Dublino; la drag queen solitaria Des Temple (Jonathan Delaney Tynan), che ha perso la persona amata ed è ulteriormente traumatizzata dopo essere stata vittima di una violenta rapina; e Cara (Maya O'Shea), una giovane femme fatale che sembra avere una sua strana idea di giustizia.
Il film è suddiviso in un certo numero di episodi che si concentrano su alcuni dei personaggi sopra citati - alcune delle loro storie si intrecciano e si scontrano, altre no. Detto questo, i personaggi interpretati da Cullen e Behan sembrano essere al centro della scena dopo il loro primo turbolento incontro nel ristorante in cui lavora il primo. Attraverso le personalità di questi due personaggi e i loro dialoghi, capiamo che c'è un tentativo di criticare - o almeno affrontare - lo stato attuale dello showbusiness, sia da una prospettiva generazionale (la vecchia guardia che combatte contro i più giovani, spesso etichettati come viziati e incompetenti) sia da una più sistemica (che lo dipinge come un'industria fatta di favori, legami personali e abusi).
Nel complesso i dialoghi sono brillanti e divertenti e possono creare grandi aspettative sulla direzione che la storia potrebbe prendere per gli spettatori. Purtroppo, la relazione tra Bloom e Finn prende una piega troppo assurda, portando a un confronto finale che indugia tra il ridicolo e il nonsense. I personaggi potevano chiudere il loro arco narrativo nel modo scelto da Armstrong, ma ciò che manca è un po' di tempo (e di azione) in più che permetta loro di "crescere" insieme prima di scontrarsi con tanta intensità.
Uno dei motivi per cui non c'è spazio per la "crescita" dei due personaggi è che almeno la metà di Made in Dublin è dedicata a storie parallele come quelle di Cara e Des. Entrambe hanno poco a che fare con questi potenti temi centrali e, in definitiva, indeboliscono il potenziale dignitoso del film di Armstrong. A ulteriore riprova di ciò, il fatto che i loro percorsi non vantano nemmeno un finale adeguato.
Come nota positiva, diremo che l'intero cast fa un discreto lavoro e il microcosmo di personaggi costruito da Armstrong e dal suo co-sceneggiatore Chris Harris è abbastanza piacevole per una visione di 102 minuti. Gli spettatori non devono aspettarsi troppa profondità o un finale gratificante, perché semplicemente non ci sono, ma ciò che rimane è un lodevole tentativo di parlare del mondo perverso dello showbiz attraverso il prisma di una città meno mainstream del solito.
Made in Dublin è prodotto da Revolution Media e Quanta Capital.
(Tradotto dall'inglese)
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