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IDFA 2023

Recensione: Man in Black

di 

- Il compositore cinese dissidente Wang Xilin si mette a nudo nel ritratto documentario di Wang Bing

Recensione: Man in Black
Wang Xilin in Man in Black

Il 2023 è stato probabilmente l'anno in cui molti spettatori sono passati da curiosi a conoscitori di Wang Bing, non che prima mancassero le lodi per il formidabile documentarista cinese. Tuttavia, il fatto che il suo studio di tre ore e mezza sullo sfruttamento nelle fabbriche tessili, Youth (Spring) [+leggi anche:
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, sia stato presentato in anteprima a Cannes ha certamente contribuito ad attirare l'attenzione sul suo lavoro e sulla sua reputazione (grazie all'etichetta di "imperdibile" che deriva dalla partecipazione a un programma competitivo, rispetto a una sezione specializzata e secondaria).   

Lo stesso festival ha ospitato anche la prima di Man in Black [+leggi anche:
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, che dura poco meno di 60 minuti, e che è stato proiettato in altri eventi durante l'anno, in apertura di Doclisboa e come parte di una retrospettiva sulla sua carriera questa settimana all'IDFA. Questi due lavori, usciti nel 2023, sono paradigmatici del suo assoluto rigore cinematografico e del suo impegno nei confronti della storia della Cina, caratterizzata da sconvolgimenti ideologici a partire dal XX secolo. Entrambi i film forniscono anche esempi pratici di approcci non convenzionali alla non-fiction, sia che si tratti della ripetitività audace e provocatoria di Youth (Spring) o della stilizzazione radicale di questo film, che si affida alla musica e ai monologhi.

Presentando un'autentica unità di personaggio, soggetto e luogo, il regista osserva il compositore cinese di musica classica moderna Wang Xilin (la cui opera non è molto conosciuta tra gli appassionati di musica classica) nei dintorni deserti del teatro Bouffes du Nord di Parigi. La direttrice della fotografia Caroline Champetier avvolge tutto in una luce umida e chiaroscurale, facendo sembrare il luogo fatiscente e abbandonato, mentre in realtà è ancora uno spazio per spettacoli funzionante.

Le scelte registiche di Wang Bing sul suo omonimo e amico di lunga data evocano un'intensità imponente e selvaggia. Una carrellata iniziale segue Wang Xilin mentre scende dalla balconata del teatro al palcoscenico, di fronte ai posti vuoti della prima fila. Ripreso completamente nudo, l'artista esegue una danza ritmica, piegando il suo corpo in una moltitudine di pose di sottomissione che riflettono in modo inequivocabile e preciso le torture fisiche subite, come scopriremo in seguito.

Nella parte centrale del film, il compositore si siede davanti alla telecamera tra le file di poltrone vuote e inizia un monologo – senza alcun accenno a un intervistatore o a una voce fuori campo – che sembra pronunciare tutto d’un fiato. Ci viene presentata una storia archetipica per un cittadino della Cina continentale di quella generazione: l'infanzia povera viene superata da un precoce fervore ideologico e da adolescente si arruola nell'Esercito Popolare di Liberazione per combattere nella guerra civile cinese. Subito dopo, il suo posto nel nuovo collettivismo cinese diventa evidente, con i suoi studi di conservatorio e le composizioni di musica militare e nazionalista nei primi anni della sua carriera. In seguito, però, all'inizio della Rivoluzione culturale, si discosta dalla linea ideologica del partito e viene esiliato in una serie di campi di lavoro e manicomi. In quest'ultimo caso, la forza dell'ostracismo e della punizione gli causò un esaurimento nervoso totale.

Mentre parla, con il ritmo di una cantilena, le sue sinfonie – ispirate all'orrore di essere in gabbia e alla sua carne bruciata – si impadroniscono del mix sonoro, spesso soffocando la sua voce, mentre i sottotitoli ci aiutano a seguirlo. Come tocco finale, il compositore esegue una canzone folk discordante su un pianoforte a coda Steinway, accompagnato dalla sua voce imponente, mentre è ancora nudo. Sebbene il documentario sia solitamente un formato votato all'eliminazione dell'artificio, Wang Bing mostra in modo idiosincratico, attraverso un'estetica precisa e combinando la forma visiva con l'obiettivo tematico, come la verità possa essere trasmessa in un altro modo.

Man in Black è una coproduzione di Francia, Stati Uniti e Regno Unito, guidata da Gladys Glover, Le Fresnoy, Louverture Films e Goodman Gallery. Le vendite mondiali sono affidate ad Asian Shadows.

(Tradotto dall'inglese)

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