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CPH:DOX 2024

Recensione: The Labour of Pain and Joy

di 

- L’ultimo documentario di Karoliina Gröndahl mostra con violenta determinazione quanto il parto possa ancora essere un’esperienza crudele e devastante

Recensione: The Labour of Pain and Joy

La regista finlandese Karoliina Gröndahl è abituata a girare lei stessa la maggior parte dei suoi film e l’ultimo non fa eccezione. Presentato in prima mondiale al CPH:DOX nella sezione NORDIC:DOX, The Labour of Pain and Joy, ci scaraventa con forza quasi brutale nel mezzo della tempesta, in un ospedale nel quale una persona sta per partorire. Il parto è infatti al centro di tutto il film, un’esperienza definita dalla regista come travolgente ma anche terribile, un momento di grande vulnerabilità che sottopone il corpo a profondi cambiamenti. È proprio in questo momento delicato che chi sta partorendo può essere vittima di abusi o meglio di quello che si comincia a definire con il termine di “violenza ostetrica”. Gröndahl ci mostra delle vie alternative di vivere il parto attraverso persone che hanno deciso di riappropriarsi di questa esperienza.

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L’esperienza della nascita può condizionare per sempre dal punto di vista fisico e psicologico, un momento chiave che le partorienti vorrebbero gestire a modo loro anche se spesso non è facile farlo. Due esperte finlandesi in materia, l’ostetrica Kirsi e la doula (figura assistenziale non medica e non sanitaria che si occupa del supporto durante tutto il percorso perinatale) Anna-Riitta lavorano con passione e determinazione per migliorare le pratiche legate al parto responsabilizzando le persone coinvolte sui loro diritti. The Labour of Pain and Joy osserva da vicino, vicinissimo, chi ha deciso di lanciarsi in quest’avventura travolgente ma anche stravolgente, evidenziandone le gioie ma anche e soprattutto le difficoltà a livello personale, sociale e sanitario. La disinformazione sulle violenze e gli abusi che possono avvenire durante il parto è al centro del film, un incitamento a riprendere in mano il proprio destino malgrado le imposizioni sociali. La decisione di partorire a casa continua infatti ad essere vista come radicale, un atto di rivolta che è meglio tenere sotto controllo.

Il processo è intenso e la cinepresa non indietreggia di fronte a nulla, in modo frontale e radicale, mostrando il travaglio in tutta la sua cruda realtà. Emblematiche in questo senso sono le scene in cui la doula si occupa della placenta che la partoriente vuole mangiare, oppure quelle marcate dai piani ravvicinati sui visi segnati dalla fatica durante il travaglio. I corpi delle persone coinvolte sono filmati con un’intensità bruciante, ritratti senza filtri in un momento incredibilmente intimo e personale che normalmente rimane nella sfera privata.

Malgrado Gröndahl approcci questa tematica, raramente mostrata al cinema, con una radicalità più che ben venuta, The Labour of Pain and Joy rischia però a volte di scadere in un essenzialismo che non considera chi ha scelto strade diverse rispetto alla maternità. La regista afferma di voler mostrare il parto da un punto di vista inclusivo, che si tratti di genere o di scelte di vita, ma questo lato militante non traspare completamente. La maternità è mostrata nel film come un avvenimento cardine nella vita di ogni individuo, come un miracolo che da senso all’esistenza, ma cosa ne è allora di chi ha scelto di non avere figli o di chi ancora non ne può avere? La loro vita rimarrà da un certo punto di vista incompleta? La regista afferma di voler mostrare che non tutte le persone che partoriscono sono donne e che non tutte le donne possono partorire ma purtroppo questo lato inclusivo rimane troppo ai margini, accennato più che affrontato di petto. The Labour of Pain and Joy è un film che provoca emozioni intense, che scuote e costringe a riflettere sul controllo che la società vuole avere suoi nostri corpi, vittime malgrado loro di stereotipi difficili da abbattere.

The Labour of Pain and Joy è prodotto da Icebreaker Productions e venduto all’internazionale dalla canadese Syndicado.

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