Recensione: Captives
- Arnaud des Pallières ci parla, attraverso un gruppo di donne internate di forza nell’inferno dell’ospedale della Pitié Salpêtrière di Parigi, della condizione femminile nel diciannovesimo secolo

Terza collaborazione fra il regista francese e la sceneggiatrice Christelle Berthevas, Captives, selezionato al Festival du film américain de Deauville (Fenêtre sur le cinéma français) e nel concorso ufficiale del Festival International du film francophone de Namur (FIFF) prima di approdare al Geneva International Film Festival (GIFF) nella sezione Highlights, può contare su un cast (quasi esclusivamente femminile) d’eccezione formato da Mélanie Thierry, Josiane Balasko, Marina Foïs, Carole Bouquet e Yolande Moreau. Insieme, le protagoniste del film danno vita ai tormenti di quante, ritenute incontrollabili, prostitute, portatrici di handicap o “isteriche” (come era norma definirle) sono state internate contro la loro volontà in manicomio e più precisamente nel labirintico ospedale della Pitié Salpêtrière di Parigi. Dimenticate lì come qualcosa di ingombrante che le famiglie, o più in generale la società non sa più dove nascondere, molte di queste donne non hanno mai più gustato il dolce sapore della libertà. Una libertà concessa solo a chi sa seguire le regole integrando un sistema patriarcale che le considera come delle semplici comparse.
Il momento preciso che Arnaud des Pallières ha deciso di mettere in scena è quello del “ballo delle folli”, serata mondana durante la quale l’alta società cittadina (che sostiene finanziariamente l’ospedale) aveva la possibilità di interagire con le “malate” in una sorta di spettacolo grottesco difficilmente sostenibile. Protagonista della storia raccontata nel film è Fanni (Mélanie Thierry) che decide volontariamente di entrare alla Pitié Salpêtrière, senza che la sua famiglia lo sappia, con la speranza di ritrovare sua madre che ha scoperto essere stata internata lì quando lei era ancora una bambina. Sebbene le modalità di internamento di Fanni non siano chiaramente esplicitate (è legittimo chiedersi se fosse così facile farsi internare e perché non abbia provato a indagare differentemente, senza mettere in pericolo la sua stessa vita), questo non ci impedisce di credere a ciò che ci racconta. Il film, in fondo, si basa proprio sulla permeabilità del concetto di verità, sulla possibilità di percepire la realtà nei modi più disparati.
Profondamente marcato da piani ravvicinati che mettono in risalto ogni gesto, ogni tremore, ed evidenziano persino i pori della pelle, Captives si prefigge l’obiettivo di (ri)dare la parola a coloro alle quali è stata sempre negata. Non sono allora le parole, spesso utilizzate dall’aggressore, a narrare le loro storie ma piuttosto il dolore, la collera e l’incomprensione che hanno accumulato nel corpo. Quasi esclusivamente popolato da personaggi femminili: la musicista allontanata dal fratello per escluderla dal testamento (Carole Bouquet), la ragazza madre, la sarta sognatrice che si rivela essere la mamma di Fanni (Josiane Balasko) o ancora la prostituta che conosce molto bene il mondo (Dominique Frot), il film esclude volontariamente dal suo discorso tutti coloro che hanno già parlato tanto, o meglio troppo.
Toccante, molto ben documentato e sostenuto da un cast di attrici davvero impressionante, il dramma storico messo in scena da Arnaud des Pallières non scade mai nel voyeurismo. Ciò che mostra, in modo ovviamente romanzato, non è che la triste realtà, la mostruosità di un sistema sociale che considera la diversità come una tara.
Captives è prodotto da Prélude con France 2 Cinéma e venduto all’internazionale da Elle Driver. L’uscita nelle sale francese è prevista per il 7 febbraio 2024 con Wild Bunch.
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