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BLACK NIGHTS 2023 Concorso Opere Prime

Recensione: Giant’s Kettle

di 

- Il debutto di Marku Hakala e Mari Käki è un esperimento significativo ed entusiasmante che fonde retro-futurismo, una favola dark e una storia d'amore

Recensione: Giant’s Kettle
Kirsi Paananen (centro) e Henri Malkki in Giant's Kettle

È difficile non ammirare i progetti portati a termine solo dall'entusiasmo dei loro autori. Giant’s Kettle [+leggi anche:
intervista: Markku Hakala, Mari Käki
scheda film
]
, diretto dai registi finlandesi Markku Hakala e Mari Käki, è uno di quei film in grado di disarmare anche i critici più severi: realizzato per puro entusiasmo nel corso di diversi anni, con un budget quasi nullo e una troupe molto ristretta, porta con orgoglio l'etichetta di progetto passionale. Il film è stato presentato in anteprima al concorso Opere prime del Festival Black Nights di Tallinn.

In una serie di scene statiche, senza dialoghi, il duo di registi cerca di raccontare la storia senza tempo degli alti e bassi di una coppia di persone impacciate che cercano di vivere in accordo con se stesse, con gli altri e con un mondo che sta scivolando nella decadenza. Lui (Henri Malkki) è un ingegnere di fabbrica con idee e ambizioni elevate, ma senza mezzi o fortuna per realizzarle. Lei (Kirsi Paananen) è un'accademica timida e impacciata che viene lasciata indietro dalla rete dei suoi colleghi maschi. I due si incontrano in modo fortuito e quasi fatale, si sposano, hanno un figlio (Atte Vuori), ma non c'è un "vissero per sempre felici e contenti" in questa favola dark, perché il mondo intorno a loro sta cambiando rapidamente e in peggio, influenzando il loro rapporto.

Lo stile scelto da Mäki e Hakala (quest'ultimo ha anche scritto la sceneggiatura, girato e montato il film) potrebbe essere definito un retro-futurismo molto elaborato. Le influenze che si possono osservare variano dai vecchi film fantastici muti in bianco e nero e dai maestri sovietici come Andrei Tarkovsky e il compianto Aleksei German Sr., a Roy Andersson, agli esperimenti di Guy Maddin con la fantascienza retrò, l'horror e il fantasy, e persino a Kim Ki-duk, dato che l'unico suono emesso da un essere umano nel film è un urlo. La fotografia di Hakala si affida a composizioni precise e gioca con le luci e la messa a fuoco per estendere la tavolozza della scala di grigi del bianco e nero a tutto il suo spettro, dai sottotoni verdi ammuffiti alle sfumature seppia. Anche il suo montaggio è significativo a livello drammatico, con il passaggio tra dissolvenza in nero e dissolvenze incrociate tra le scene.

Poiché non esiste un dialogo in senso stretto, la recitazione deve essere molto espressiva dal punto di vista fisico, ma solo fino a un certo punto, e gli attori si attengono a questa norma al meglio delle loro capacità. Inoltre, la mancanza di dialoghi richiede un lavoro sul paesaggio sonoro, che è pieno di droni ululanti per la maggior parte del tempo, mentre qualcosa che potrebbe qualificarsi come musica arriva solo alla fine del film.

Sebbene la storia di fondo del film sia accattivante e accessibile, il suo stile ampiamente sperimentale potrebbe non sedurre tutti gli spettatori. Tuttavia, durando solo 71 minuti in tutto, Giant’s Kettle non diventa troppo incomodo e dimostra che, sebbene Markku Hakala e Mari Käki siano registi per hobby, non sono finiti a fare film per caso.

Giant’s Kettle è una produzione finlandese guidata da Hakala+Käki Film Company.

(Tradotto dall'inglese)

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