Recensione: Le Belle Estati
- Mauro Santini adatta liberamente due romanzi di Cesare Pavese in un film sperimentale che gioca coi limiti tra realtà e finzione
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S'intitola Le Belle Estati il nuovo film di Mauro Santini presentato nella sezione Concorso Documentari Italiani della 41ma edizione del Torino Film Festival. Il progetto, concepito come laboratorio audiovisivo per i ragazzi del Liceo Artistico Mengaroni di Pesaro, diventa un film sperimentale, a tratti lirico, in cui vengono trasposti in maniera molto libera i due romanzi brevi di Cesare Pavese, La Bella Estate e Il Diavolo sulle Colline, classici moderni che hanno saputo raccontare l’età della giovinezza come pochi. Mauro Santini e i suoi studenti mettono in scena situazioni e personaggi originariamente pensati a Torino adattandoli alla Pesaro odierna, in un’operazione che mette in risalto l’aspetto universale dell’opera di Pavese e la capacità che ha ancora il cinema di attingere alle fonti letterarie con grande immaginazione. Man mano che le immagini scorrono sullo schermo vediamo i ragazzi trasformarsi, crescere e fare esperienza del mondo alla maniera dei personaggi pavesiani Ginia, Amelia, Pieretto e Guido, in un dialogo continuo fra le parole dei due romanzi, tra suono e immagine, tra finzione e realtà.
Le Belle Estati si pone come sfida quella di raccontare gli ardori e gli imbarazzi della gioventù mescolando i linguaggi dell’arte, passando dalla pittura al cinema moderno di Antonioni, in una continua myse en abyme che permette ai giovani attori di svelare qualcosa di sé recitando. Tutti i personaggi letterari sono interpretati da almeno due attori, a ricalcare la doppia natura del film, che si abbevera da due fonti. Questo dispositivo, che vede i protagonisti mettersi in mostra sia da studenti che da attori, ricalca ad esempio alcuni eventi narrati da Pavese in entrambi i romanzi, in particolare la scena di Ginia che si spoglia o dei ragazzi che si bagnano nudi. Una nudità che nel film non può che diventare metaforica, e che gioca con l’idea di un'identità acerba, in divenire.
In questo senso il film diventa un saggio sulla messa in scena e al contempo testimonianza delle gioie, difficoltà e paure dell’ultimo anno di scuola superiore, fatto di salti nel vuoto e di amori furtivi. Una sfida non facile quella di Santini, che si misura con un autore che precedentemente era stato portato sul grande e piccolo schermo da Michelangelo Antonioni appunto (Le Amiche, 1955) e Vittorio Cottafavi (Il diavolo sulle colline, 1985) e che ha un immenso peso nella cultura italiana. Un peso dal quale il regista e gli studenti si liberano trattando il testo come materiale moderno e restituendo ai personaggi la stessa spontaneità datagli da Pavese, una spontaneità nutrita dalla loro natura provinciale, messa a confronto con le tentazioni e i vizi del mondo.
Mauro Santini racconta che per preparare gli studenti alle riprese ha mostrato loro i film di Jonas Mekas e Mothlight di Stan Brakhage, affinché avessero un’idea di cinema che non implichi per forza l’uso della macchina da presa. Un approccio pedagogico alle immagini eterodosso, che dovrebbe letteralmente fare scuola e che sfocia in un film molto libero, ammantato da un lieve pudore adolescenziale.
Il film è stato prodotto dal Liceo Artistico Mengaroni grazie ai fondi del bando Cinema e Immagini indetto dal Ministero della Cultura in collaborazione col Ministero dell’Istruzione e del Merito.
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