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IFFR 2024 Bright Future

Recensione: King Baby

di 

- Riflessione acuta sulla decadenza del potere maschile, il film del duo Kit&Arran è una farsa assurda che si fa beffe degli stereotipi di genere

Recensione: King Baby
Graham Dickson in King Baby

Presentato nella sezione Bright Future dell’IFFR, King Baby è una favola che racconta di un regno creato dal nulla, composta da un re (Graham Dickson), un servo (Neil Chinneck) e una regina di legno. Un regno fittizio nel cuore dell’Europa in cui a governare sono ovviamente gli uomini, immaginando una femminilità nella quale proiettare la loro volubilità e le loro frustrazioni. Grazie a questo semplice dispositivo, che a volte segue e a volte distorce le regole dello schema di Propp sulle narrazioni fiabesche, il duo Kit&Arran (Kit Redstone e Arran Shearing) realizza una commedia dalle continue invenzioni linguistiche e visive che deve molto alla scena teatrale dalla quale provengono, sia quella più classica che quella sperimentale.

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I due registi infatti attingono al canone letterario inglese, pur smitizzandolo e facendone parodia, con strizzate d’occhio alla pomposità attoriale shakespeariana, a Harold Pinter (dal quale Joseph Losey trasse Il Servo) e a George Orwell, senza dimenticare le referenze cinematografiche e la sacrosanta parodia dei vetusti royal drama che ormai affollano il panorama audiovisivo. E quindi Monty Python, il folk horror di The Wicker Man ma anche la commedia assurda di comici off come Alastair Green, soprattutto nell’uso della mimica facciale, anche questa figlia dell’eccessivo manierismo inglese ed esaltata dai numerosi primi piani della dalla macchina da presa (siam pur sempre al cinema).

L’idea geniale del film è quella di pensare una regina la cui femminilità è totalmente conforme agli stereotipi più misogini, con un’inquietante proiezione di identità che cambia a seconda del re che la regina sposa. Un gioco diabolico nel quale la figura femminile è letteralmente un oggetto, vittima dei capricci di due di tipi di mascolinità opposte e speculari, ma entrambi nocive. La critica alle molte forme che assume il potere risalta non solo nelle ridicole battute di caccia o nell’estremo servilismo tributato al re, ma nella capacità dei personaggi di uscire ed entrare nel ruolo nello spazio di pochi secondi. Questo continuo dislocamento, oltre ad avere un effetto comico, apre spazi di riflessione sulla legittimità del potere costituito e sulla volontà nell’essergli sottoposti, dimostrando tutta la fragilità delle fondamenta sulle quali si posa l’autorità.

Girato con stile classico - una chiara influenza dettata della natura teatrale del testo - King Baby si permette alcuni inserti onirici, anch’essi però debitori del canone (Buñuel, ovvio, ma soprattutto Lynch). Scene che richiamano l’esoterismo inerente a qualsiasi potere, la sua forza distruttiva, il suo lento logorio. Nonostante le numerose situazioni assurde presenti nel film, sembra però che Kit&Arran abbiano paura a spingersi più in là e creare un loro proprio linguaggio, unico limite di un film che comunque rimane brillante fino alla fine, cosa non sempre facile quando si tratta di satira politica. E politico lo è King Baby, fin dal titolo, denunciando la regressione linguistica e la deriva puerile di cui soffre questo tempo.

King Baby è prodotto dalla britannica Vaccum Theatre e la francese Ghosts City Films, mentre le vendite saranno gestite da The Right Ones.

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