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BERLINALE 2024 Concorso

Recensione: Dahomey

di 

- BERLINALE 2024: Il documentario di Mati Diop, che segue la restituzione di opere d'arte rubate in epoca coloniale, è un piccolo gioiello prezioso

Recensione: Dahomey

Torri Eiffel brillano di colori vivaci, illuminano la notte. Sono tante, sono piccole e vengono vendute su uno dei ponti di Parigi. Sono oggetti, ma la torre è anche un simbolo della capitale francese e la loro immagine apre il film Dahomey [+leggi anche:
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, diretto da Mati Diop, un documentario semplice ma intelligente, attento e mirato, in concorso alla 74ma Berlinale.

Queste Torri Eiffel rimarranno silenziose e immobili, almeno finché qualche turista non le acquisterà, mentre invece 26 sculture e opere d'arte stanno per partire per un lungo viaggio. E una di esse, la statua di Re Ghezo, riavrà la sua voce. Dove viaggia il monarca di metallo e legno? Centotrenta anni dopo essere stato prelevato dall'ormai inesistente Regno di Dahomey (l'attuale Benin) dalla Francia in epoca coloniale, sta tornando a casa. Si presenta semplicemente come "Numero 26" e dice con voce bassa e ultraterrena di essere stato tenuto nell'oscurità e così via; la sua vera identità verrà poi rivelata da un curatore di un museo beninese.

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La telecamera di Diop segue il trasferimento del monarca e del suo seguito dalla Francia al Benin, dove vengono accolti all'arrivo come dei reali in carne e ossa. Ci sono persone che cantano e ballano gioiosamente; ci sono delegazioni di funzionari locali che vengono a riceverli. Prima di essere disimballate e presentate al pubblico, le scatole con le 26 opere d'arte attendono in un palazzo presidenziale. Prendi questa, Torre Eiffel in vendita sul marciapiede.

Non solo le sculture trovano voce nel Dahomey, ma a metà dei 67 minuti del film l'attenzione si sposta da un museo a una conferenza, dove i beninesi discutono anche animatamente della restituzione del loro tesoro nazionale. Diop presenta una miriade di opinioni diverse e punti di vista ambigui: alcuni sono contenti del ritorno degli artefatti, altri rivogliono tutti gli oggetti rubati, mentre altri ancora indagano sull'identità nazionale beninese e su come sia stata alterata dal colonialismo. Un uomo racconta che da piccolo guardava i cartoni animati americani e non aveva accesso alle leggende e alle storie locali, per cui non sapeva che queste statue esistessero.

Dando voce alla statua di Re Ghezo e aggiungendo alcune riprese un po' irrealistiche di piante o dell'Oceano Atlantico, Dahomey cerca di colmare questo vuoto, di essere una favola raramente, o forse mai, raccontata prima. Il film di Diop è un delizioso esercizio di commistione tra realtà e fantasia, ed è importante per presentare come il passato coloniale influenzi ancora il presente, quanto sia complicato e stratificato questo retaggio. Il film si chiude con l'immagine di una strada beninese di notte, immersa in luci al neon colorate; non è possibile che provengano da una torre europea, o forse sì? Dopotutto, nemmeno le sculture hanno voce.

Dahomey è un'opera che ha visto il coinvolgimento di Francia, Senegal e Benin ed è stata prodotta da Les Films du Bal e Fanta Sy. Le vendite mondiali sono guidate da Les Films du Losange.

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(Tradotto dall'inglese)

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