Recensione: Okarina
- Il lungometraggio d’esordio dell’albanese Alban Zogjani segue l’inesorabile disgregamento di una famiglia di immigrati kosovari dinanzi alle difficoltà di ottenere il permesso di soggiorno

Andare contro la propria morale per assicurarsi un futuro migliore: già è difficile di per sé. Se poi le cose non vanno esattamente come previsto, e sfidare i propri valori provoca effetti che non si erano messi in conto, l’effetto domino è inesorabile e finisce per travolgere anche le persone care. È questo il tema di Okarina, primo lungometraggio del regista albanese Alban Zogjani, presentato in concorso al 42mo Bergamo Film Meeting dopo il suo primo passaggio lo scorso novembre all’International Film Festival of India. Un dramma che coinvolge una coppia di kosovari che si vedono negare il diritto di rifarsi una vita dopo aver vissuto le devastazioni della guerra e che gradualmente maturano una decisione molto delicata e rischiosa.
Esiste un prima e un dopo “la lettera” per Shaqa e Selvia (Jehon Gorani e Shengyl Ismajli), marito e moglie di mezza età che hanno lasciato il Kosovo per raggiungere le loro figlie nel Regno Unito, dove vivono in una casetta a schiera in una tranquilla cittadina di provincia e conducono una vita dignitosa, lui confezionando strumenti musicali in legno (tra cui l’ocarina del titolo) e lei come colf presso un avvenente vedovo, Giovanni (Kastriot Shehi). La lettera in questione è quella dell’Ufficio immigrazione che comunica alla coppia che non avranno rinnovato il permesso di soggiorno: “Oggi il vostro paese è al sicuro, potete tornarci”. Siamo agli inizi degli anni Duemila, e mentre le loro due figlie, Saranda e Vjosa (Rina Krasniqi e Flaka Latifi) hanno i documenti in regola, padre e madre sono invitati a lasciare il Paese, con la prospettiva di ricominciare tutto da capo in un Kosovo senza opportunità.
“Dobbiamo rimanere vicino alle nostre figlie, loro non torneranno mai”, è convinta Selvia, mentre il suo ombroso marito sembra rassegnarsi al destino. Ma una soluzione ci sarebbe, ed è Giovanni ad offrirla alla donna: un matrimonio di comodo per ottenere il permesso di soggiorno. La stessa cosa dovrà farla Shaqa, un matrimonio finto con la complicità della loro vicina di casa (Arta Selimi), il cui unico compagno di vita è il suo cane. Quindi, dopo non poche discussioni e perplessità, la decisione è presa e si va instaurando uno strano e improbabile ménage à quatre, in cui le solitudini degli uni incontrano il bisogno di documenti degli altri. Le due nuove coppie sono costrette a vivere effettivamente sotto lo stesso tetto, visto che le autorità possono bussare alla porta in qualsiasi momento, per un controllo. Poi, una volta ottenuto il permesso di soggiorno, c’è il divorzio e tanti saluti. Ma le cose, si sa, possono anche prendere una piega diversa.
Mentre Shaqa e Selvia si ritrovano a rimettere in discussione tutta la loro vita, un filo parallelo segue le tribolazioni della figlia più piccola e ribelle, Vjosa, che di nascosto porta in grembo un bambino, da single: una circostanza di cui solo la più saggia sorella Saranda è al corrente. Questa è forse la parte meno interessante del film e toglie spazio a uno scavo più approfondito dei personaggi principali, le cui azioni e motivazioni rimangono un po’ ambigue. I dialoghi sono essenziali e suggeriscono poco, e a volte si ha l’impressione di trovarsi davanti ai fatti compiuti, senza capire bene come ci si sia arrivati (vedi il percorso emotivo di Selvia). Il tema del film sarebbe appassionante, ma è trattato in modo freddo, minimalista e rischia di lasciare lo spettatore poco coinvolto.
Okarina è prodotto in Albania da Asha e coprodotto in Germania da Agus Films.
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