Recensione: Grand Me
- La regista iraniana Atiye Zare Arandi punta la macchina da presa sulla nipote di nove anni, che vuole scegliere il proprio tutore dopo il divorzio burrascoso dei genitori

Melina ha nove anni, ma dire che è molto più saggia di quanto la sua età possa far pensare è un eufemismo. La protagonista di Grand Me [+leggi anche:
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scheda film] è una bambina alle prese con le conseguenze del divorzio dei genitori - un ruolo che non si sceglie mai da soli, ma che ci viene affidato - e non ha altra scelta che reagire. È una situazione spinosa: Melina vive con i nonni a Esfahan, in Iran, dopo la separazione, e sia il padre che la madre si sono sposati di nuovo. Non voluta dal patrigno e tenuta lontana dal padre, che ha il suo passaporto, la ragazza prende in considerazione la possibilità di intentare lei stessa una causa per l'affidamento. Grand Me diventa così un candido ritratto del malcontento e dell'indipendenza infantile, girato e diretto dalla zia di Melina, Atiye Zare Arandi. Il film è stato presentato in anteprima mondiale nella sezione NEXT:WAVE del CPH:DOX.
Per il suo debutto internazionale nel lungometraggio, Atiye Zare Arandi si mantiene vicina a casa, senza mai interferire attivamente. Lo stile cinematografico verité si basa sull'osservazione, ma anche far parte di certe situazioni familiari in modo così puro è possibile solo per una persona intimamente coinvolta come un parente. Osservare diventa partecipare, ma in modo intransigente e rispettoso, cogliendo la facilità con cui Melina si esprime o si rifiuta di farlo. Le tensioni nascono e si acuiscono, ma mai a causa della macchina da presa. Ritratto diretto di dinamiche ineffabili, Grand Me non ha bisogno di sottolineare alcun contesto specifico dell'Iran - come i ruoli di genere o la legge sulla custodia dei figli - e affida tutto il suo potere alla bambina protagonista.
Melina è fiera e schietta: affronta la madre in modi che molti spettatori europei troverebbero sorprendenti. Un altro film avrebbe potuto usare questa carica per indurre lo spettatore a un'eccessiva empatia con la figlia o a una demonizzazione dei genitori (ricordate Cafarnao [+leggi anche:
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scheda film]?), ma Grand Me preferisce essere equilibrato a favore della verità. La verità emotiva di Melina, cioè.
Uno strumento che facilita questa difficile rappresentazione è, senza dubbio, la telecamera. Da un lato c'è la macchina da presa di Arandi, dall'altro Melina si filma con uno smartphone, con un risultato potenziante. Con una madre assente e un padre distante, la ragazza avrebbe potuto riversare il suo cuore nella telecamera o sfogarsi davanti ad essa, ma invece la usa per incanalare la frustrazione in una quasi-performance che in realtà rivela più del suo stato emotivo rispetto, ad esempio, ai tutorial di make-up che registra. Senza alcun intervento o voce fuori campo, la regista incoraggia la nipote, solo filmando e tenendosi in disparte, in un generoso atto di cura genitoriale - e registica - a proseguire le conversazioni, ad affrontare la durezza della propria situazione e a cercare il proprio posto in un mondo così complesso e disordinato.
Grand Me è prodotto da Associate Directors (Belgio) e ATAM Film (Iran), mentre CAT&Docs si occupa delle vendite mondiali.
(Tradotto dall'inglese)
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