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CANNES 2024 ACID

Recensione: In Retreat

di 

- CANNES 2024: Il primo lungometraggio di Maisam Ali, sul ritorno di un viaggiatore alla sua città natale nel nord dell'India, medita sull'appartenenza in un'epoca di (dis)connessione frenetica

Recensione: In Retreat

Per gli appassionati di cinema dell'Asia meridionale, Cannes è in fermento per la notizia di due film di studenti del Film and Television Institute of India: il primo film indiano nel concorso principale in oltre 30 anni e il primo film indiano in assoluto nella selezione ACID. Con un approccio riflessivo al cosiddetto slow cinema, il regista ladakhi di origine iraniana Maisam Ali si è appena assicurato quest'ultima impresa con la premiere del suo lungometraggio d'esordio, In Retreat [+leggi anche:
intervista: Maisam Ali
scheda film
]
. Sia come sceneggiatore che come regista, Ali snocciola un racconto di viaggio contemplativo che a volte è troppo lento anche per un cinema così riflessivo, ma che vi rimarrà impresso per molto tempo dopo la sua breve durata.

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Un uomo senza nome sulla cinquantina (Harish Khanna) evita i funerali del fratello e vaga da un luogo all'altro, facendo del suo meglio per raggiungere la destinazione prevista: casa. Nel frattempo, nel corso della stessa notte, una giovane donna disegna uno schizzo a matita che è metà disegno e metà mappa: una sorta di contro-mappa, una storia personale su carta. Ma in ogni momento del suo percorso è frainteso dagli abitanti del luogo, incapace di comunicare o in qualche modo fuori luogo. Anche quando viene invitato a una festa da due uomini a cui regala sigarette, gli viene detto che non avrebbe dovuto essere lì.

Cercando su Google il Ladakh, i turisti troveranno cime innevate intervallate da valli fresche e verdi e stupendi stupa buddisti accanto a bandiere di preghiera tibetane. Ali rifiuta questa rappresentazione, così come molti registi mongoli rifiutano le rappresentazioni piene di yak del loro cinema nazionale, rivolgendosi invece all'esperienza quotidiana, la maggior parte della quale si svolge di notte. Il film è visivamente avvolto da un senso di malinconia, con colori freddi e una macchina da presa che si muove lentamente, con la fotografia di Ashok Meena. Non necessariamente tristezza, ma qualcosa che si deposita nella bocca dello stomaco e non se ne va più. Dalla voce fuori campo ascoltiamo versi ripetuti, alcuni del poeta palestinese Mahmoud Darwish, che riflettono lo stato d'animo del nostro protagonista: né qui né là, sempre in viaggio. Con il sound design di Rahul Tiwari, le melodie orchestrali si affiancano alla musica diegetica di artisti pop come Billie Eilish, un promemoria sonoro del tempo e del luogo contemporaneo.

La parziale mancanza di potere del protagonista - o forse il suo desiderio di essere semplicemente trascinato - lo conduce in luoghi inaspettati, ma lascia anche che lo spettatore desideri un tocco di narrazione in più per guidare anche i meandri più volutamente privi di scopo, al fine di rimanere coinvolto. Poiché la regione confina a est con il Tibet e a ovest con il Pakistan, la componente di disegno e mappatura aggiunge un ulteriore livello al materiale tematico, considerando lo status del Ladakh come territorio amministrato dall'India dopo la spartizione dell'India del 1947, piuttosto tenue ancora oggi. Ma c’è da dire che la regione è un crogiolo di culture himalayane, uno spazio eterotopico che sembra sfidare qualsiasi tentativo di costringerlo per comodadità in un quadro etnonazionalista. Ma Ali non si fissa su un messaggio politico: In Retreat piuttosto invita lo spettatore a riflettere su come il personale, il politico e il culturale siano intrecciati in modi forse diversi per ognuno.

In Retreat è una coproduzione tra India e Francia di Varsha Productions e Barycenter Films con Salt for Sugar Films.

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(Tradotto dall'inglese)

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