Recensione: Glory Hole
- Esordio nella finzione del documentarista Romano Montesarchio, che riesce a dare un’angolazione personale, febbricitante e allucinata, ad una storia di camorra e di amore negato

Soltanto un’enciclopedia del cinema può raccontarci quanto la psicopatologia delle condotte criminali nei sistemi mafiosi abbia affascinato sceneggiatori e registi, sia in chiave grottesca che drammatica. Romano Montesarchio, esperto documentarista, adotta, al contrario, un’angolazione anti-realistica e personale per il suo esordio nel cinema di finzione, Glory Hole, presentato in anteprima mondiale nella sezione Panorama dello Shanghai International Film Festival. Eppure il regista di Caserta trae ispirazione da fatti di cronaca (e di politica) ben concreti e crudeli, quel fenomeno delle ecomafie che hanno avvelenato indiscriminatamente pezzi di territorio italiano, corrompendo e arricchendosi senza misura sulla pelle dei cittadini. L’intenzione però non è quella di girare un altro episodio di Gomorra, ma di entrare nella dimensione interiore di un protagonista del crimine organizzato, un colletto bianco della camorra che fa affari con il business dello smaltimento illegale dei rifiuti tossici.
Il plot di Glory Hole non è di quelli da farci saltare sulla poltrona per originalità. E’ una love story in ambiente criminale distorta e malata fino al paradosso, in cui a esigere il proprio tributo è la negazione stessa dell’amore e della bellezza. Ma la sceneggiatura dello stesso regista scritta insieme a Edgardo Pistone e Stefano Russo riserva alcune interessanti derive e spostamenti che ci portano fino all’ultimo dei 95 minuti di durata.
Silvestro (una nuova prova di bravura di Francesco Di Leva) incontra ad una festa la giovane Alba (Mariacarla Casillo), figlia del boss per cui lavora (Gaetano Di Vaio, anche produttore del film, morto in un incidente nel maggio scorso). I due danno vita ad una relazione segreta, un’unione impossibile che va contro ogni regola delle famiglie mafiose e che precipita presto in una spirale. Silvestro è costretto a nascondersi in uno di quei bunker pieni di cunicoli usati dai latitanti, che vediamo nei servizi dei tg. Delle tombe dotate di tutti i comfort tranne quello della libertà di movimento (bravo lo scenografo Massimiliano Forlenza). Nella sua clandestinità Silvestro è aiutato da due amici d’infanzia, don Peppino, un prete (Mario Pirrello) che sembra smarrito a sua volta, e uno stravagante proprietario di club privé, a cui dobbiamo il titolo del film (Roberto De Francesco, come sempre a livelli alti). Ma il cerchio si sta stringendo per Silvestro, la paranoia sale sempre più e la realtà si trasforma in un incubo.
Con un’estetica molto attuale, che guarda allo spettatore più giovane cresciuto con Nicolas Winding Refn, la fotografia di Matteo Vieille Rivara non conosce mezze misure: gioca di fuoco/fuori fuoco e colora ogni scena con toni molto netti, che sia la livida luce naturale grigio-azzurra o il neon rosso sangue del privé o il verde dei tunnel sotterranei in cui si muovono figure umane polarizzate. Gli archi indecifrabili orchestrati dal maestro Mario Tronco e una regia fatta di macchina fissa e movimenti lenti, inframmezzati dalle immagini delle telecamere di sorveglianza plasmano un film ossessivo e claustrofobico, onirico e febbricitante, allucinato e feroce. Sentenzioso in certi momenti (“alla fine a tutti manca qualcosa”, “mi fa schifo di far finta di essere felice”) nella ricerca dell’umanità nel mostro, il film si disvela lentamente e culmina in un monologo finale di brutale concretezza, una confessione-j’accuse molto vicino ad una performance di teatro civile: “Sono stato la soluzione a tutti i vostri problemi… Ho ottenuto potere e denaro in cambio della salute dei figli dei figli”.
Glory Hole è prodotto da Bronx Film, Minerva Pictures, Eskimo, Rai Cinema. Minerva Pictures Group si occupa delle vendite internazionali.
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