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FILM / RECENSIONI Italia / Francia

Recensione: Shukran

di 

- Un episodio del conflitto siriano girato con partecipazione emotiva e passione civile ma con pochi mezzi dall’esordiente Pietro Malegori

Recensione: Shukran
Shahab Hosseini in Shukran

Con 22 milioni di persone costrette a lasciare il proprio Paese e più di 6 milioni di bambini che vivono ancora in zona di guerra, il conflitto siriano rappresenta dopo 12 anni la più grande crisi umanitaria dei nostri giorni. Con Shukran [+leggi anche:
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, nelle sale italiane l'8, 9 e 10 luglio con Eagle Pictures, il regista italiano Pietro Malegori ha inserito un altro tassello nel grande mosaico che il cinema ha tentato di comporre in questi anni sulla guerra civile, o rivoluzione, siriana, e più in generale su primavere e inverni arabi. Ispirandosi a fatti realmente accaduti, Malegori racconta un episodio tra mille, rendendo omaggio a chi “prova a fare la differenza”, un concetto che può essere applicato a tutti i conflitti in corso, nei quali è essenziale che predomini il dovere di lottare e non arrendersi.

Shukran (“grazie” in arabo) inizia con la voce fuori campo di Jala (la franco-algerina Camélia Jordana), una perfusionista (controlla le apparecchiature che permettono la circolazione extracorporea durante l'intervento) che racconta il suo incontro con il cardiochirurgo Taher Hailar (Shahab Hosseini) all’ospedale pediatrico di Damasco, una delle poche strutture rimaste in piedi. Il punto di vista è dunque quello di una donna, una madre che scopriamo aver perso un figlio nel conflitto. Jala rimane però un personaggio marginale alla storia. E’ sul tormentato dottore che si concentra il film. E’ Taher a rispondere di no al fratello maggiore Ali, che lavora con i “caschi bianchi” (l'organizzazione umanitaria di protezione civile siriana), che gli propone di accompagnarlo in un viaggio pericoloso a Binnish, nella zona controllata dai jihadisti di Jabhat al-Nusra, per soccorre un bambino cardiopatico, Mohamed. Partito da solo, Ali rimane vittima di un attentato suicida ad un checkpoint, compiuto proprio dal padre del piccolo Mohamed.

Una serie di flashback durante il film ricostruisce il rapporto tra i due fratelli, figli di un alto ufficiale dell’esercito, sin da quando da ragazzini avevano salvato dal mare, rifocillato e nascosto un pilota israeliano (un “muqatil”, il nemico per eccellenza), episodio che in qualche modo aveva rivelato la diversità delle reciproche visioni del mondo e segnato il loro destino. Spinto anche dal senso di colpa, Taher esce dalla sua bolla - l’ospedale in cui per mancanza di rifornimento di ossigeno deve decidere giorno per giorno chi salvare e chi no -  e parte per fare quello che era nelle intenzioni del fratello ucciso. Nel viaggio viene accompagnato da un anziano della zona del fronte terroristico che la cui moglie è stata uccisa dall’esercito che stava reprimendo le proteste pacifiche contro il presidente Bashar Assad nella primavera del 2011.

La performance dolente e angosciata dell’iraniano Shahab Hossein, interprete per Asghar Farhadi di tre film (About Elly, Una separazione, Il cliente [+leggi anche:
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), rappresenta certamente la colonna portante del film, nonostante una sceneggiatura troppo lineare e con qualche enfasi retorica di troppo. La regia soffre con tutta evidenza di una mancanza di un budget più adeguato e mentre le scene degli interventi chirurgici sono eccellenti, gli esterni in situazioni più di “azione” (l’attentato suicida, l’attacco degli elicotteri con i gas) sono meno efficaci, nonostante il pathos sia mantenuto ( la fotografia è curata da Tommaso Fiorilli). Un’opera prima carica di partecipazione emotiva, impegno e passione civile che avremmo voluto però più personale.

Shukran è una coproduzione Italia-Francia di Addictive Ideas, con 3 Marys Entertainment, Frame by Frame e Rosebud Entertainment Pictures.

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