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LOCARNO 2024 Piazza Grande

Recensione: Mexico 86

di 

- Dopo Nuestras Madres, Caméra d’Or a Cannes nel 2019, César Díaz cambia registro per un film di spionaggio intimo e teso che mette in discussione l'impegno e la genitorialità

Recensione: Mexico 86
Matheo Labbé e Bérénice Bejo in Mexico 86

Cesar Díaz si è imposto sulla scena internazionale nel 2019 con il suo documentario d'esordio Nuestras Madres [+leggi anche:
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, presentato alla Semaine de la Critique di Cannes e premiato con la Caméra d'Or. Ora il regista belga-guatemalteco torna con Mexico 86 [+leggi anche:
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, presentato in anteprima mondiale al Festival di Locarno in Piazza Grande.  

Tutto inizia con una separazione. Una separazione tra una donna e l'amore della sua vita, ucciso davanti ai suoi occhi. Una separazione tra una madre e il suo bambino. Maria, combattente rivoluzionaria guatemalteca, è costretta all'esilio in Messico per sfuggire alla dittatura. Per il bene della sua famiglia, abbandona il figlio neonato, affidato alle cure della nonna. Mentre conduce una vita da esule, moltiplicando le identità per servire la sua causa, Maria mantiene i contatti con il figlio, che cresce lontano da lei, come un estraneo, fino al giorno in cui la sua stessa madre, malata, le comunica che non sarà più in grado di occuparsi del bambino. Maria decide di riprendere il suo ruolo di genitore, ma si trova di fronte a una scelta che non è pronta a fare, tra i suoi ideali e la sua famiglia.

È il suo punto di vista che seguiamo, dall'inizio alla fine. Concentrandosi su questa donna guidata dalle sue convinzioni, a costo della sua vita personale, Cesar Díaz si sforza nel corso della storia di aiutarci a capire le sue scelte e a mettere in discussione la nostra stessa visione della genitorialità. Se la figura del padre rivoluzionario non suscita domande, che dire di quella della madre? La maternità è compatibile con la clandestinità e la lotta armata? La decisione radicale di Maria all'inizio del film incombe sulla sua vita come un'ombra. Anche se non si tira indietro in pubblico, la sua vita privata è piena di dubbi. Eppure la vediamo portare avanti instancabilmente la sua ricerca, servendo il suo ideale politico con determinazione e convinzione. Il regista coglie abilmente i codici del film di spionaggio – soffermandosi sulla messa in scena inerente a questa vita segreta, in particolare sulle leggende che Maria inventa per preservare la sua identità – e alimenta la sua storia con una tensione latente, punteggiata da alcune esplosioni che turbano il delicato equilibrio per cui il suo personaggio sta lottando. È un film di spionaggio, ma interiore, con pochi effetti stilistici o dimostrazioni di forza, sempre incentrato sul punto di vista di Maria, come l'inseguimento finale, che affrontiamo insieme a lei per intero.

Spetta a Bérénice Bejo, che si ricollega alle sue origini sudamericane, assumere il ruolo di Maria e gettarsi con tutto il cuore in questa fuga perpetua, bersaglio mobile di una caccia non all'uomo ma alla donna. A suo agio nel ruolo di questa donna testarda che si ritrova, suo malgrado, in una duplice battaglia, contro i suoi nemici e contro i suoi stessi alleati, l'attrice offre una coerenza convincente a questo personaggio complesso, le cui intenzioni e motivazioni si chiariscono man mano che la storia si svolge, richiamandoci ai nostri stessi pregiudizi.

Il film è prodotto da Need Productions (Belgio) e Tripode Productions (Francia), ed è coprodotto da Pimienta Films (Messico) e Menuetto (Belgio). Le vendite internazionali sono a cura di Goodfellas.

(Tradotto dal francese)

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