SAN SEBASTIAN 2024 Horizontes Latinos
Recensione: Zafari
- Mariana Rondón mette in scena un racconto distopico ambientato in uno zoo semi-abbandonato di una città che evoca Caracas, metafora della degradata realtà sociale del Venezuela contemporaneo
Presentato nella sezione Horizontes Latinos del 72a edizione del Festival di San Sebastian, Zafari di Mariana Rondón è la storia di un non-luogo. Di un grattacielo con piscina che ospita uno zoo e di diverse famiglie, legate fra loro da ragioni condominiali. Protagonista del film è la famiglia di Ana (Daniela Ramírez) insieme a suo marito (Francisco Denis) e a suo figlio (Varek La Rosa), e un ippopotamo appena arrivato allo zoo.
L’ambizione del film è quella di partire da un curioso fatto di cronaca accaduto nel 2016 (la morte di un ippopotamo nello zoo di Caracas) per raccontare la disintegrazione di un condominio di lusso, simbolo della società Venezuelana contemporanea. Una trama che richiama il romanzo “Il condominio” di J.G. Ballard trasformando la distanza tra piani e piani bassi in una metafora della distanza di classe, e lo zoo in un’arena in cui gli animali sono le prime vittime di una situazione economica e sociale talmente degradata da sfociare nel surreale. Man mano che il film prosegue, a furia di scene imbarazzanti e grottesche, il racconto si fa sempre più confuso e incoerente, come se sfuggisse a qualsiasi logica e fosse guidato dalla fame dei personaggi.
L’impressione è che la confusione non sia solo frutto dell’incapacità fisica e mentale dei personaggi, e la loro discesa verso uno stato di animalità selvaggia per Mariana Rondón (vincitrice della Conchiglia d’oro di questo festival nel 2013 con Pelo malo [+leggi anche:
recensione
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intervista: Mariana Rondón
scheda film]) sia insito nella natura umana piuttosto che frutto della situazione politica esistente. In questo, Zafari si configura come un film di genere, incarnando parecchi stereotipi narrativi abbinati a un tocco di tropicalità che probabilmente aggraveranno lo stato selvatico di Ana & co. agli occhi dello spettatore europeo. Il problema è appunto che la satira feroce di Zafari non sembra diretta verso il potere per essere abbastanza divertente. Se nella prima parte del film si denota una certa originalità nell’affrontare la questione, man mano che la storia si sviluppa si ha un certo senso di oppressione, una sorta di pena per quello a cui si assiste mista alla noia. Se succede ciò che succede è perché l’uomo è un animale che tende a prevaricare sull’altro in situazioni estreme. Un modello che purtroppo nel cinema ha fatto scuola (vedi Netflix) e che qualche produttore furbo utilizza per aumentare l’audience.
E nella sua discesa verso il degrado Zafari ci trasporta con sè, incapaci di una visione critica su ciò che ci circonda, incapaci di costruire un futuro comune, impauriti e individualisti, pronti a scappare. Che le cose siano cosí non lo si mette in dubbio, ma forse il problema di questo racconto morale è proprio nella sua accesa ambizione di descrivere il reale nascondendolo sotto il manto della finzione. Insomma niente di nuovo per un cinema che dovrebbe guardare all’orizzonte e che invece si nega lo sforzo di immaginare qualcosa di meglio.
Zafari è stato co-prodotto da Sudaca Films (Perù), Paloma Negra Films (Messico), Still Moving (Francia), Klaxon Cultura Audiovisual (Brasile), Quijote Film (Cile), Selene Films (Repubblica Dominicana) e Artefactos SF (Venezuela). La società spagnola Feelsales si occuperà delle vendite.
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