Recensione: Squali
- L’opera seconda di Alberto Rizzi è un eccentrico dramma familiare ispirato a I Fratelli Karamazov di Dostoevskij, girato con sorprendente creatività
Le relazioni familiari e i mali della provincia profonda sono i temi chiave di Squali, opera seconda del veronese Alberto Rizzi (aveva esordito nel 2020 con Si muore solo da vivi), selezionato in Alice nella Città alla Festa di Roma 2024 e ora nelle sale italiane. Liberamente ispirato a I fratelli Karamazov di Fedor Dostoevskij, Squali parte cinematograficamente da lontano, da quell’esordio di Marco Bellocchio del 1965, I pugni in tasca, film-manifesto di una generazione ribelle che aveva rappresentato una famiglia autodistruttiva in un’esanime e perbenista provincia del Nord Italia come asfittico e velenoso microcosmo pronto ad esplodere. Il legame con I pugni in tasca, a cui si fa esplicito riferimento in una scena del film di Rizzi, sembra sfociare con il cinema più recente di Carlo Mazzacurati e di Alessandro Rossetto, che avevano tolto la maschera al ricco e affarista Veneto, per poi coagularsi in qualcosa di ancora diverso, tra rappresentazione teatrale e cinema che sperimenta, tra realismo e allegoria, in un vortice di ingredienti caustici e dissacranti.
Quattro fratelli e fratellastri molti diversi tra loro e ognuno con qualcosa che gli rode l’anima, si ritrovano nel vecchio casale del padre vedovo, Leone (un inarrestabile Mirko Artuso), sull’altopiano pre-alpino della Lessinia, nella provincia di Verona. Come il Fëdor Pavlovič di Dostoevskij, Leone è un uomo crudele e astuto, manipolatore e istrionico, possessivo e paranoico. Il figlio maggiore Demetrio (Stefano Scherini), odia il padre, ricambiato, ed è lì perché è pieno di debiti di gioco e vuole i soldi che la madre gli ha lasciato, prima che gli strozzini lo facciano fuori. Anche Ivan, atletico e ossessionato dalla forma fisica (Diego Facciotti, un giovane volto di pietra), disprezza Leone, ed è lì a malincuore, solo perché la sua fidanzata Flor (l’attrice dominicana Astrict Lorenzo) lo ha sbattuto via di casa. L’angelico Alessio (Gregorio Righetti) ha abbandonato il seminario nel monastero della zona per tornare ad un amore giovanile, mentre l’imperturbabile Sveva (Maria Canal), che da sempre vive con il padre, ha appena scoperto di aspettare un figlio, e si sente prigioniera di quelle mura e quei monti. “La provincia non è un posto, ce l’hai in testa, è la puzza che ti porti dietro” le conferma con rabbia Demetrio.
Già drammaturgo e regista teatrale, Alberto Rizzi (che ha anche scritto la sceneggiatura) sposta i confini dello spazio filmico, fa esprimere ironicamente i suoi attori con citazioni colte (canticchiano la canzone delle guardie svizzere che Louis-Ferdinand Céline pone all’inizio di Viaggio al termine della notte) e, allo stesso tempo, con crudo linguaggio contemporaneo. Rizzi dirige con rigore classico e con una creatività sorprendente e la fotografia di Michele Brandstetter de Bellesini crea coloriture a tratti oniriche, utilizzando elementi del paesaggio in chiave simbolica: i giacimenti di fossili di Bolca, con gli squali di 50 milioni di anni fa (da loro arriva il titolo, che si riferisce evidentemente all’avidità umana), o il maestoso e inquietante Ponte di Veja. Tra realismo magico e grottesco, Rizzi gioca con le usanze locali (la festa dei “trombini” a san Bartolomeo) e soprattutto scherza coi santi, con il sentimento religioso ipocrita e bigotto della gente del luogo che materializza una santa in carne ed ossa (Chiara Mascalzoni) che cita Santa Sangre di Alejandro Jodorowsky. Personale e visionario, Squali ha un sottofinale fedele al romanzo dostoevskiano, con il parricidio liberatorio, ed un crudo e commovente finale di redenzione e pacificazione.
Squali è prodotto da Magenta Film, e sarà nelle sale italiane dal 12 novembre, distribuito da Magenta Film.
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