Recensione: La cosa migliore
- Il regista italiano Federico Ferrone realizza la sua prima opera da solista, un solido racconto di radicalizzazione ambientato nel nord Italia

Presentato in anteprima mondiale ad Alice nella Città, nei giorni della Festa del Cinema di Roma, e distribuito dal 14 novembre nelle sale italiane da Lo Scrittoio, il primo lungometraggio da solista di Federico Ferrone, intitolato La cosa migliore, è un debutto convincente e capace di toccare temi attuali e scottanti con grande semplicità e sincerità. In precedenza, Ferrone ha lavorato in coppia con il collega Michele Manzolini, con il quale si è dedicato a opere al confine tra archivio, documentario e fiction, come Il varco [+leggi anche:
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Nello specifico, il film segue le vicende del diciassettenne Mattia (Luka Zunic), che vive in una provincia post-industriale del nord Italia. Figlio di un sindacalista (Fabrizio Ferracane) e di una casalinga iperprotettiva (Giulia Valenti), Mattia è vulnerabile e rabbioso, e si esprime attraverso l’hip-hop fino alla tragica morte del fratello maggiore, evento che alimenta il senso di colpa e lo spinge a lasciare scuola e musica per lavorare in fabbrica.
L’amicizia con il collega marocchino Murad (Abdessamad Bannaq) e il fratello Rashid (Lawrence Hachem Ebaji) e, successivamente, un viaggio in Marocco lo avvicinano all’Islam, che percepisce come una via per una vita più ricca di senso. Tuttavia, i conflitti interiori e familiari del ragazzo persistono, portandolo gradualmente verso l’isolamento e la radicalizzazione.
La sceneggiatura, pur mantenendo una struttura piuttosto lineare, riesce nel suo intento: raccontare come alcune scelte e alcuni incontri possano avere effetti imprevedibili sulla nostra vita. Si comprende chiaramente quanto l’equilibrio tra morte e salvezza sia flebilissimo e come pochi istanti e azioni – all’apparenza casuali o irrilevanti – possano portare a destini completamente diversi. È ben rappresentata anche l’idea che la radicalizzazione – o comunque l’essere cooptati – possa colpire chiunque, anche un semplice ragazzo di periferia, irrequieto e chiuso in sé stesso ma non molto diverso da tanti altri suoi coetanei. Tale processo – in questo film come nella realtà – avviene prevedibilmente in risposta a un enorme vuoto interiore e a una mancanza di appigli sociali soddisfacenti, sempre più presenti nella società “liquida” in cui viviamo. La regia di Ferrone, insieme alla scrittura di Giampiero Rigosi e Olivier Coussemacq, racconta tutto ciò senza fronzoli e puntando dritto all’obiettivo.
Inoltre, il film si sorregge su ottime interpretazioni. Zunic riesce a conferire al suo ruolo il giusto grado di fragilità, testardaggine e inconsapevolezza. I personaggi interpretati da Bannaq e Hachem Ebaji risultano adeguatamente sfaccettati e imprevedibili, soprattutto grazie ai differenti modi di intendere la propria fede religiosa. Il comparto tecnico – in particolare i movimenti di macchina del direttore della fotografia Salvo Lucchese e il montaggio a opera di Maria Fantastica Valmori – conferisce il giusto ritmo alla narrazione, sempre sostenuto ma mai affrettato.
Nel complesso, Ferrone firma un’opera solida, capace di coinvolgere dall’inizio alla fine – con pochi mezzi e molto da raccontare.
La cosa migliore è stato prodotto da Apapaja in collaborazione con Rai Cinema.
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