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SERIE / RECENSIONI Italia

Recensione serie: ACAB

di 

- 13 anni dopo l’omonimo film, la serie diretta da Michele Alhaique si concentra sul conflitto interiore dei poliziotti antisommossa e sul limite tra uso legittimo e illegittimo della forza

Recensione serie: ACAB
Marco Giallini e Valentina Bellè in ACAB

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, Cattleya torna a trasferire dal grande al piccolo schermo storie tratte da libri di successo con ACAB, la nuova serie che la casa di produzione fondata da Riccardo Tozzi lancia su Netflix a partire dal 15 gennaio. Dall’omonimo libro del giornalista Carlo Bonini, pubblicato nel 2009, era già nato nel 2012 il film ACAB [+leggi anche:
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, diretto da Stefano Sollima, e ora, tredici anni dopo, le vicende dei reparti mobili della polizia – ossia degli agenti incaricati di mantenere l’ordine pubblico nelle piazze durante le manifestazioni, con possibili derive violente e dilemmi morali annessi – tornano sullo schermo in sei puntate per la regia di Michele Alhaique (Senza nessuna pietà [+leggi anche:
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, le serie Bang Bang Baby [+leggi anche:
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e Romulus) e con produttore esecutivo lo stesso Sollima.

Qualcosa è cambiato da quando Bonini scrisse il suo libro: la polizia, all’epoca reduce dal disastro del G8 di Genova e dalla “macelleria messicana” alla scuola Diaz, ha successivamente introdotto l’uso delle bodycam, ha avviato corsi di formazione per la tutela dell’ordine pubblico e ha ammesso le donne nei suoi reparti mobili. Ce n’è una, Marta (interpretata da Valentina Bellè), tra i “celerini, figli di puttana” protagonisti di questa serie. Insieme ai suoi compagni di squadra Mazinga (Marco Giallini, già nel film di Sollima), Salvatore (Pierluigi Gigante) e Pietro (Fabrizio Nardi), questa giovane madre single affronta, armata di casco, scudo e sfollagente, i manifestanti no Tav in Val di Susa. Al termine di feroci scontri rimangono a terra, feriti gravemente, sia un agente che un manifestante. Da lì partono le indagini della Digos (“È dai fatti della Diaz che non venivano qui in reparto”, ricorda uno dei poliziotti) per appurare cosa sia successo e se non sia stato fatto un uso eccessivo della forza. Nel frattempo, a capo della Mobile arriva un nuovo comandante, Michele (Adriano Giannini), che ha un’idea più progressista e meno violenta della gestione dell’ordine: tra lui e i sostenitori della “vecchia scuola” (specialmente Mazinga) saranno scintille.

Il confine tra ordine e caos, sicurezza e libertà, e il limite tra uso legittimo e illegittimo della forza sono al centro di questo racconto che ambisce anche a scavare nella psicologia dei suoi personaggi, seguendoli nella loro vita privata più o meno felice e nei conflitti che vivono quando si tolgono la divisa. “I poliziotti si trovano prigionieri di esistenze bipolari, dominate dal paradosso per cui per ristabilire l’ordine sono chiamati ad utilizzare strumenti e metodi che mettono continuamente alla prova le leggi e la morale. La nostra serie indaga le conseguenze umane e sociali di questa pericolosa scissione”, spiegano gli ideatori Carlo Bonini e Filippo Gravino. Il tutto è confezionato in una veste action-crime immersiva, ad alto tasso testosteronico (a cui anche la protagonista femminile si adegua). La squadra antisommossa è come una tribù, l’uno protegge l’altro, ma la serie non giudica. L’ipnotico accompagnamento musicale dei Mokadelic (già autori, fra le altre, delle ottime musiche di Gomorra - la serie) è fin troppo presente: l’intento del regista Alhaique era costruire una messa in scena non naturalistica e seguire le azioni interiori dei personaggi. L’insieme non è particolarmente trascinante, ma è senza dubbio di stretta attualità, mentre infuria il dibattito pubblico e politico sui violenti scontri di appena tre giorni fa tra manifestanti e polizia, in varie città italiane, a seguito dell’uccisione di un 19enne egiziano durante un inseguimento dei carabinieri a Milano.

La serie ACAB è una produzione di Cattleya per Netflix.

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