Recensione: Letters from Wolf Street
di Marta Bałaga
- BERLINALE 2025: Arjun Talwar parla della sua relazione tossica con la Polonia, che si rivela divertente, triste e universale

Vivere in un Paese straniero è una cosa strana. Ci sono luoghi che tutti sognano e nessuno metterà mai in discussione la vostra decisione di trasferirvi in Italia, per esempio, non dopo Sotto il sole della Toscana, o a Parigi dopo aver visto Lily Collins bere scandalosamente Kir Royale nel primo pomeriggio. Nessuno si chiederà mai: "Perché?". Ma Arjun Talwar, cresciuto a Delhi, è andato invece in Polonia. "Perché siamo qui? Cazzo", chiede il suo collaboratore Mo Tan in Letters from Wolf Street [+leggi anche:
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scheda film], ed è una domanda al tempo stesso esilarante e triste. Loro non conoscono la risposta, e nemmeno i polacchi.
Quello che segue è un'indagine: sulle scelte personali di Talwar, sulla tragica morte del suo amico, sulla Polonia in generale. La donna che vive accanto a lui lo salutava sempre. Poi, per strada, si comportava come se non si conoscessero. Nel suo documentario, presentato in Panorama alla Berlinale, si sforza di non lamentarsi troppo, ma è evidente che si sente solo a Varsavia, in Wolf Street. E non è l'unico.
È un film sul dolore, in realtà, o sul senso di colpa dei sopravvissuti. È arrivato lì con un amico, sperando in qualcosa di meglio. "Ci sentivamo come i primi esploratori", ricorda. Quel futuro glorioso non è mai arrivato: il suo amico è morto. Ora Talwar, rassegnato, sta cercando di capire se ne è valsa la pena, ma la Polonia sembra mostrare gli stessi identici sintomi. La gente parla sempre di solitudine. Ammettono che ogni volta che le cose stanno per andare bene, "Putin o Hitler rovinano tutto". Talwar afferma che la Polonia è un "mistero" per lui, ma in realtà la capisce molto meglio di quanto pensi. Forse è qui che scatta la frustrazione: se capisci, se capisci come ci si sente ad essere soli e rifiutati, perché non dimostri più comprensione per gli altri?
Talwar elenca i soliti crimini polacchi: razzismo (viene continuamente chiamato "Michael Jackson"), intolleranza e la famigerata marcia dell'indipendenza di novembre. "Noi non 'tolleriamo', amiamo gli immigrati. Se sono meritevoli", dice qualcuno qui, e probabilmente non ha nemmeno dovuto aspettare molto per queste citazioni. Ci sono citazioni del film degli anni 30 La perla nera con la sua tragica star Reri, o del successo pop Makumba di una band chiamata Big Cyc – che tradotto è "Big Tetta". Gli anni '90 erano strani, con un ragazzo africano che voleva studiare in Polonia, ma "gli skinhead non lo lasciano vivere". È tutto qui, e anche peggio, e non può essere difeso. Ma a Talwar interessa ancora molto.
Uno di quei documentari che cercano di dire qualcosa di serio pur essendo gentili, il film si basa su conversazioni con sconosciuti e (per lo più) sulla mancanza di giudizio. Paweł Łoziński l'ha fatto brillantemente in The Balcony Movie [+leggi anche:
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intervista: Paweł Łoziński
scheda film] del 2021, in cui intavolava conversazioni casuali con le persone dal suo balcone. Potrebbe essere un paragone ingiusto, tuttavia, perché a) Łoziński è polacco e b) anche se entrambi possono essere edificanti, Letters from Wolf Street a volte manca di concentrazione. Dopo un po', non si tratta solo di una strada o di una città, ma diventa più grande e, francamente, si perde. D'altra parte, lo stesso vale per Talwar, incapace di uscire da una relazione tossica con questo Paese.
Per chi scrive, è un'esperienza interessante assistere a questo fenomeno da polacca che vive all'estero, in un altro Paese dove la gente sembra più diffidente nei confronti degli estranei negli ultimitempi. "Come straniero a Londra, mi piace che ci siano tanti altri stranieri", ha detto una volta lo scrittore David Sedaris. Finché questo non accade, si suppone che la solitudine faccia parte del territorio (straniero).
Letters from Wolf Street è prodotto da Uni-Solo Studio (Polonia) in coproduzione con inselfilm production (Germania).
(Tradotto dall'inglese)
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