Recensione: La casa degli sguardi
- L’esordio registico dell’attore Luca Zingaretti su un ragazzo tossicodipendente racconta la trasformazione del dolore in un percorso di crescita senza uscire dai confini di una emotività controllata

Marco, ventenne romano, deve partecipare ad un reading di poesia. È nervoso, agitato e qualche bicchierino al bar per distendersi non farà male. Ma Marco è un alcolista e tossicodipendente, dopo la morte della madre ha mollato gli studi, gli amici, la fidanzata e ha cominciato a bere e tirare coca. Ubriaco, sale in auto e si schianta contro un camion. È così che ci introduce il suo protagonista La casa degli sguardi, esordio alla macchina da presa di un attore popolarissimo come Luca Zingaretti (il commissario Montalbano dell’omonima serie, venduta in oltre 60 Paesi) presentato a ottobre alla Festa di Roma e a marzo al BIF&ST di Bari e in uscita dal 10 aprile con Lucky Red. Liberamente ispirato al libro omonimo di Daniele Mencarelli, La casa degli sguardi è un film sulla possibilità di trasformare il dolore in un percorso di crescita personale, passando dall’autodistruzione alla redenzione.
Gianmarco Franchini (che si era fatto notare in Adagio [+leggi anche:
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scheda film]) interpreta Marco, affiancato dallo stesso Zingaretti, che veste i panni del padre del ragazzo. La sceneggiatura (firmata dal regista con Gloria Malatesta, Stefano Rulli e lo stesso Mencarelli) “tradisce” il romanzo, nel quale la figura della madre, seppur assente fisicamente, era centrale nella narrazione, e sposta l’asse del racconto sul rapporto padre-figlio. Autista di tram a Roma, il papà di Marco è un uomo semplice ed equilibrato, con solidi princìpi, senza essere un genitore asfissiante. È sinceramente preoccupato per la sorte del figlio. Per evitare le conseguenze giudiziarie dell’incidente e spezzare la routine della dipendenza, consiglia a Marco di accettare un’occasione di lavoro che gli sta offrendo il suo editore. Marco accetta e comincia un impegnativo percorso in una cooperativa addetta alle pulizie nell’ospedale pediatrico Bambino Gesù della capitale. Il primo contatto di Marco con la realtà della sofferenza – lui che flirta con la morte - è la visione di una bambina all’obitorio, vestita come una bambola. Da una finestra c’è un bambino che gli fa il gesto delle corna, e più avanti nel film Marco troverà il coraggio per entrare nella sua stanza. Il giovane deve confrontarsi anche con le difficoltà del lavoro, soprattutto perché non riesca ad abbandonare l’alcool. I colleghi incarnano le varie sfumature di quella “romanità” che spazia dal cinismo al disincanto, fino ad una disinteressata premura, nella quale il protagonista trova volentieri rifugio.
Nella sua prima esperienza con la macchina da presa, Zingaretti dimostra una grande sobrietà e una certa schiettezza negli intenti, muovendosi con cautela in territori spinosi, senza scadere nel melodramma e allo stesso tempo senza osare troppo dal punto di vista formale. Attingendo alla sua enorme esperienza nel cinema ma soprattutto televisiva, il regista preferisce offrire una esperienza rassicurante per lo spettatore, puntando più su una emotività controllata che sul dramma (ci vengono in mente certi momenti davvero lancinanti nel rapporto tra padre e figlio tossicodipendente in Beautiful Boy di Felix van Groeningen). Zingaretti è più interessato al lato sociale, suggerendo il potere salvifico del lavoro e l'importanza delle relazioni umane. Con l’esperto direttore della fotografia Maurizio Calvesi, il regista rende inoltre un amorevole omaggio alla bellezza della sua città. Gianmarco Franchini conferma di essere una promessa magnetica, anche se qui è prigioniero del cliché narrativo - poco credibile - del ”poète maudit”. Inquadrato due volte dal regista, il verso della poetessa Alda Merini proiettato sulla scalinata della Galleria Nazionale d’Arte Moderna suona quasi “blasfem”. Lei si, davvero, era “maledetta”.
La casa degli sguardi è prodotto da Bibi Film e Clemart con Rai Cinema, Stand by Me e Zocotoco.
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