Recensione: Dry Leaf
di Olivia Popp
- Persone e luoghi diventano un’unica cosa nel secondo lungometraggio di Alexandre Koberidze, che segue una serie di incontri durante un viaggio tranquillo attraverso la campagna georgiana

Là dove c'è volontà si trova la strada; dove c'è vita, c'è un campo da calcio. Nel suo secondo lungometraggio, Dry Leaf [+leggi anche:
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intervista: Alexandre Koberidze
scheda film] – il cui titolo fa riferimento a un calcio in cui la traiettoria della palla è imprevedibile – il regista georgiano Alexandre Koberidze, che vive a Berlino, suscita un desiderio innato di apprezzare il mondo che ci circonda, dal quale ci stiamo lentamente allontanando. Dry Leaf, in concorso per il Pardo d'oro al Festival di Locarno, è il seguito dell'acclamato debutto dello sceneggiatore e regista, What Do We See When We Look at the Sky? [+leggi anche:
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intervista: Alexandre Koberidze
scheda film] (presentato in anteprima alla Berlinale nel 2021).
“C'è un campo da calcio qui vicino?” chiede Irakli (il padre del regista, David Koberidze) più e più volte in ogni città della Georgia rurale che attraversa in auto alla ricerca della figlia scomparsa, Lisa, una fotografa sportiva che l'ultima volta è stata vista mentre scattava foto proprio in campi simili. È accompagnato da Levan, il suo amico invisibile che siede accanto a lui e interviene gentilmente quando Irakli sembra allontanarsi troppo. Anche molte delle persone che incontrano sono invisibili, e Irakli sembra vagare completamente solo.
Iniziamo a immergerci in questo mondo attraverso l'incantevole colonna sonora percussiva di Giorgi Koberidze, accompagnata da pianoforte e sintetizzatori dissonanti, con il film che si evolve in un'opera quasi interamente accompagnata dalla musica attraverso una serie di leitmotiv riconoscibili. La fotografia del film è curata dallo stesso regista, che ha girato con un cellulare Sony Ericsson, un apparecchio lanciato per la prima volta nel 2005. Siamo testimoni di paesaggi e interazioni attraverso una prospettiva visiva distante da quella della vita quotidiana, eppure, in qualche modo, il fascino di questi campi pixelati persiste più che mai. La campagna georgiana, a volte di un giallo secco, altre volte di un verde lussureggiante, è punteggiata da animali: prima gatti, poi cani, mucche, cavalli e altro ancora, che creano un senso di sicurezza e tenerezza.
La durata di tre ore del film forse va contro il bisogno di stimoli costanti dello spettatore medio. Al contrario, siamo spinti a trovare piacere nelle cose più semplici, che spesso sono le più sublimi: l’incontro momentaneo tra un bambino e un vitello, o Irakli che lava con cura il suo veicolo, l'acqua che scorre lungo il finestrino per rivelare il paesaggio oltre. Più avanti, Koberidze accenna a un critica sul nostro rapido allontanamento da ciò che ci sta a cuore come esseri umani – cultura, sport, vita – sostituito dalla rapida modernizzazione tecnologica e dallo sviluppo del territorio a scopo di lucro.
Ciò che colpisce maggiormente è tutta una serie di presunte contraddizioni insite sia nella forma che nel contenuto: ad esempio, sembra un paradosso fondamentale proiettare in 2K un film con immagini volutamente sgranate e “povere”. Eppure la fotografia del telefono raramente evoca un video diario: le riprese di Koberidze sono invece incredibilmente ferme e composte con precisione. Allo stesso modo la ricerca di Irakli di una persona scomparsa, accompagnato da un amico invisibile, trasuda un'ironia che in seguito possiamo liquidare come superficiale. Koberidze ci guida delicatamente nell’interrompere il nostro bisogno di riconciliare la bella incompletezza del mondo: capta, non pensare troppo.
Dry Leaf è una produzione che coinvolge Germania e Georgia di New Matter GmbH. È venduto da Heretic.
(Tradotto dall'inglese)
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