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IDFA 2025

Recensione: The Kartli Kingdom

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- Per il loro primo lungometraggio documentario, il duo georgiano-francese di registi Tamar Kalandadze e Julien Pebrel trascorre diversi anni con i residenti in esilio di un vecchio sanatorio di Tbilisi

Recensione: The Kartli Kingdom

“Noi, i rifugiati di Kartli”, così si definiscono le persone che da 30 anni, dai tempi delle guerre civili degli anni Novanta in Georgia, vivono in un sanatorio di Tbilisi che porta proprio quel nome. Questa frase è tratta da una protesta in difesa del loro diritto a essere ascoltati e sostenuti, catturata con fermezza dal documentario The Kartli Kingdom [+leggi anche:
intervista: Tamar Kalandadze, Julien P…
scheda film
]
, presentato in anteprima mondiale nel concorso internazionale dell'IDFA, dove si è aggiudicato sia il premio per la miglior regia sia una menzione speciale miglior opera prima (leggi la news). Co-diretto dal duo di cineasti georgiano-francese Tamar Kalandadze e Julien Pebrel, The Kartli Kingdom delinea un ritratto intimo di una comunità irrimediabilmente sfollata osservandone e testimoniandone la vita quotidiana. Kalandadze e Pebrel hanno lavorato sia come direttori della fotografia che come fonici per garantire che l'ambientazione non fosse invadente, ma piuttosto incoraggiante.

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Da testimoni silenziosi, i registi e la macchina da presa accolgono le storie orali degli abitanti: dall’espulsione dall’Abkhazia al rifugio che sembrava temporaneo in un sanatorio per cardiopatici. Pur evitando di semplificare i racconti di esilio collocandoli su una linea temporale, The Kartli Kingdom – che è anche il nome con cui la Georgia era chiamata in epoca medievale – trova un equilibrio fine e lodevole fungendo da documento storico non lineare, senza coltivare nostalgia per il passato. Eppure, un senso di lutto gravoso grava sul film fin dall’inizio, quando veniamo a sapere del tragico suicidio di Zurab, 52 anni, che “cadde come una foglia, sotto gli occhi di tutti”. Un atto di sacrificio spinge la comunità a lottare per (e, in un certo senso, contro) la loro casa fatiscente, anche quando la macchina da presa mostra una voragine che divide l’edificio in due. Il crollo è imminente, ed è tempo di agire; eppure i funzionari – presenti attraverso telefonate che non sentiamo mai – restano passivi.

Inquadrato in 4:3 e girato in modo da valorizzare le superfici dell’edificio come fossero una metafora del terreno psichico gravato dal trauma, The Kartli Kingdom abbonda di inquadrature fisse delle pareti scheggiate di cemento a vista e dei pavimenti irregolari, con le loro pozzanghere e i loro buchi, mentre il passare delle stagioni li consuma. “Era tutto pulito e in ordine,” racconta un residente, parlando delle condizioni del sanatorio 26 anni fa, “e c’era persino un tappeto”. È la massima dose di nostalgia che il film si concede, però, perché i registi sanno bene che non si può riportare indietro il tempo, nemmeno quando intervistano l’abitante di Kartli più anziano. Preferiscono invece ritagliare uno spazio in cui il passato possa risiedere e parlare da sé: l’archivio.

Ciò che eleva The Kartli Kingdom al di sopra del classico documentario d'osservazione ben confezionato è l’approccio inventivo alla stratificazione (che si tratti di storie, memorie o archivi), che dimostra comunque una profonda comprensione dell’architettura del trauma. Nel film, le registrazioni VHS private dei matrimoni vengono proiettate negli spazi comuni, e alcune immagini girate dagli stessi registi sono fatte aderire all’estetica d’archivio, senza mai suggerire che stiano sullo stesso piano. Nel loro esordio nel lungometraggio, Kalandadze e Pebrel mostrano già un metodo paziente e attento innanzitutto alle persone di Kartli, ma anche al luogo in cui abitano: un luogo di ambivalenza che è ormai diventato una casa.

The Kartli Kingdom è prodotto da Sakdoc Film (Georgia) e Habilis Productions (Francia); Square Eyes cura le vendite internazionali.

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(Tradotto dall'inglese)

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