Recensione: Despite the Scars
- Raccontando un caso di stupro, il documentario di Felix Rier dimostra come la danza possa essere strumento con il quale il corpo rende concreta la sofferenza, e diventare terapia

L’arte è un mezzo per l’espressione e la comunicazione del nostro mondo interno e offre un luogo dove dare una forma visibile e condivisibile ai propri traumi. Il documentario Despite the Scars, opera prima di Felix Rier premiata al Biografilm, dimostra come la danza possa essere uno strumento attraverso il quale il corpo può rendere concrete le emozioni del singolo individuo, compresa la sofferenza dovuta ad uno stupro. Il film è attualmente nelle sale di alcune città italiane (qui l'intera programmazione) e a gennaio sono previste proiezioni a Milano, Torino e Roma, con il supporto di Ucca.
Alcuni anni fa Thea Malfertheiner stava camminano da sola in un parco nel quartiere Friedrichshain-Kreuzberg, verso il Berghain, il famoso club techno di Berlino, quando viene aggredita e stuprata da tre persone. Parla subito di questa terribile esperienza con il suo amico Felix, l’autore del film, e un anno dopo decidono insieme di condividere questa storia, “perché”, come scrive Thea nel suo diario, “non dobbiamo stare in silenzio sulle cose che contano”. Despite the Scars segue tutto il processo di elaborazione del dolore di questa giovane donna ferita che vive nella zona est di Berlino. La sensazione di voler scappare dal proprio corpo e dalla vita, le mestruazioni bloccate per quasi 9 mesi, gli attacchi di panico, gli incubi in cui viene violentata dai suoi stessi amici. Il documentario divide i suoi 72 minuti tra cinque luoghi differenti. L’appartamento che Thea divide con il compagno Thiago (conosciuto dopo la violenza sessuale) e la cagna Mandinga; le strade e i parchi dove Thea porta Mandinga, grazie alla quale la ragazza ha riacquistato la forza di camminare tra la gente; lo studio nel quale la giovane donna incontra lo psicanalista, che applica la EMDR, una terapia che favorisce il processo di rielaborazione dei traumi; l’aula del processo ai responsabili della violenza, nella quale però la camera del regista non entra; e infine la scuola di danza.
Quest’ultimo è il luogo della “cura dell’anima” per eccellenza, e dove il film si apre ad un respiro più ampio e cinematograficamente più affascinante. Thea lavora con il suo team di danzatrici ad una coreografia collegata alla sua esperienza. Invita le altre a prendere coscienza dei corpi attorno a loro, “percepire e individuare desiderio, intenzioni, consenso”. La danza diventa così terapia, diventa il collegamento principale tra anima e corpo, tra le due dimensioni dello stesso “io” ed è l’elemento di connessione tra corpi che si muovono nel medesimo spazio, con conseguente propensione alla relazione con l’altro, con le persone che in un modo o nell’altro entrano nella nostra sfera di influenza.
Utilizzando, nel montaggio di Angela Disanto, anche alcune brevi registrazioni aggiuntive in cui Thea si riprende con una sua piccola telecamera mentre è da sola e parla guardando verso l’obiettivo, Rier si concentra su una regia antiretorica e misurata, che non nasconde un’empatia affettuosa e la tenerezza dovuta alla sua amicizia con la protagonista. C’è calore ed eleganza, c’è la bellezza di una lenta guarigione e una rinascita, “nonostante le cicatrici”, quando Thea si accorgere di essere incinta e quando più tardi si scopre finalmente capace di controllare le emozioni e accetta che il bambino le tiri i capelli o le afferri il collo con le manine, cosa che tempo prima non avrebbe accettato da nessuno. Una lezione di esistenza capace di reagire alle dinamiche patriarcali. Thea è una sopravvissuta che rimarca l’importanza di affrontare il dolore, “accoglierlo e permettergli di far parte della propria storia, senza che esso ci definisca”.
Il film è prodotto da Helios Sustainable Films, che sta portando avanti le trattative per un’uscita in Germania e Francia.
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