1. Gli elementi più controversi
La controversia sulle quote è stata da subito il punto di fuoco della direttiva “Televisione senza frontiere” ed è, tuttora, ragione di dispute a non finire. Se prendiamo in esame il testo come sortì dal compromesso dell’ottobre 1989 – trascurando per chiarezza espositiva le poche integrazioni o modifiche apportate nel 1997 – non è difficile rilevare la portata di un atto, che, comunque lo si voglia giudicare, ha innescato accesi confronti, provocando effetti a catena e ricorrenti tensioni. Pochi ricorderanno che la primissima proposta della Commissione puntava più alto, fissando al 60% il tempo di trasmissione da dedicare alle “opere comunitarie” – questa era la dizione usata – “escluso il tempo dedicato ai notiziari, manifestazioni sportive, giochi televisivi, pubblicità o servizi teletext” (art.4): se l’esclusione di questo tipo di programmi è sostanzialmente rimasta identica, al posto della ristretta categoria di “opere comunitarie” si è fatto spazio a quella più comprensiva di “opere europee” e invece del 60% si è impegnata una formula più tenue, invitando le emittenti a concedere alle opere europee “la maggior parte del loro tempo di trasmissione”. Il Parlamento nel corso della sua seconda lettura aveva ribadito, però, che una tale percentuale dovesse essere ottenuta “con appropriati mezzi giuridicamente efficaci”: il che più o meno significa “quote”, pur senza evocare alla lettera un termine così controverso. Ma non solo fu cancellata la stringente formula: gli Stati membri, anziché disporre, avrebbero dovuto vigilare “ogniqualvolta sia possibile e ricorrendo ai mezzi appropriati” sull’effettivo raggiungimento dell’indicazione-invito della Comunità. Non fu una querelle terminologica quella che si svolse nei mesi lungo i quali si snodò la procedura di cooperazione – applicata la prima volta dopo l’entrata in vigore della riforma dell’Atto Unico – che avrebbe portato alla faticosa adozione del compromesso finale. Esso interviene su alcuni aspetti dei sistemi legislativi che reggono l’esercizio dell’emittenza televisiva per renderli armonici: definizioni comuni, promozione delle opere europee con particolare riguardo alla produzione indipendente, principi e percentuali ammissibili di pubblicità con specifico riferimento alle eventuali interruzioni dei film cinematografici, protezione dei minori, diritto di rettifica. L’intera parte sul diritto d’autore fu rinviata a tempi migliori, perché non si riusciva a trovare un minimo di accordo.
Contro chi sostenne fino all’ultimo l’esigenza di prevedere quote cifrate e quindi verificabili si lanciarono le accuse più grevi. Al relatore del Parlamento europeo Carla A. Hills, delegata degli USA per le questioni commerciali, indirizzò una dura lettera di protesta. In molti si scagliarono contro il protezionismo di chi ardiva pensare l’Europa come Fortezza chiusa in se stessa. Fu detto e ripetuto che le quote dovevano essere piuttosto una misura transitoria, un obiettivo da raggiungere con una forte volontà, non una barriera tesa a penalizzare chi deteneva e avrebbe continuato a detenere – un’enorme fetta di mercato. In realtà la distinzione tra protezionismo e protezione, tra guerra commerciale e valorizzazione del pluralistico immaginario europeo non è di immediata evidenza. Equivoci possono insorgere, ma era – ed è – chiaro che la direttiva, la quale oltretutto non si limita a prendere in considerazione, ai fini del calcolo, opere di fiction e non prescrive ovviamente collocazioni orarie, intendeva – come intende – incentivare gli sforzi tesi ad accrescere la circolazione interna di programmi non nazionali, dar spazio alla produzione indipendente (almeno il 10% del tempo di trasmissione o il 10% del bilancio destinato alla programmazione: art.5) e a quella recente (ultimata da non più di cinque anni).
A leggere i rapporti che sono stati predisposti dalla Commissione europea per verificare l’andamento delle cose si constata la fondamentale utilità e la necessitata debolezza di una normativa varata a prezzo di tante polemiche. E’ utile, intanto, che si rilevino, sia pure facendo ricorso a criteri non sempre uniformi e comparabili, le varie situazioni. La quarta comunicazione in materia – luglio 2000 – attesta che l’insieme dei 367 canali sottoposti a esame nel periodo 1997-1998 – ma oggi i canali satellitari o via cavo a potenziale copertura nazionale sono circa 600 – non dà un quadro allarmante. Fatte le debite medie – ciò che talvolta impedisce di individuare i veri punti deboli – solo il Portogallo si trova drammaticamente fuori norma, con il suo 43% di opere europee trasmesse. Nondimeno si fa notare che quando la “proportion majoritaire du temps” – questa la puntuale dizione francese – non è raggiunta, si deve o al fatto che un canale è nuovo o alla sua natura tematica o perché si è di fronte a canali cinematografici. Proprio queste osservazioni fanno comprendere che l’Europa ha il fiato grosso se si tratta di affrontare i processi di innovazione e se la lente di ingrandimento viene focalizzata sul cinema, che trova nella diffusione televisiva una parte decisiva delle sue risorse.
La stessa esistenza della direttiva legittima le connotazioni specifiche di un settore, quello audiovisivo, che anche in sede di accordi commerciali internazionali (prima il GAT sui servizi, quindi le trattative in sede di OMC, Organizzazione Mondiale del Commercio) l’Unione intende considerare nella sua peculiarità. “La cultura – affermò Jacques Delors – non è una merce al pari di ogni altra”. E il cinema meno che mai, anche se nessuno nega la sua distinta collocazione entro un sistema dell’audiovisivo che ha caratteri sempre più multimediali e globali.
Il fatto che le quote non siano imposte non vuol dire – occorre aggiungere - che si tratta di un obiettivo declamato vanamente o di una semplice enunciazione di buoni propositi. Del resto anche altri passaggi della direttiva si riflettono, direttamente o meno, nelle vicende del cinema. Così è per la nozione di opera europea in caso di coproduzione, che sarà tale solo se realizzata “con il preponderante contributo di autori e lavoratori residenti in uno o più Stati europei” (art. 6.3), così per le interruzioni dei “film cinematografici”, consentite secondo certe cadenze (art.11), così per la tutela della cronologia di trasmissione televisiva di un film, che deve rispettare quanto concordato (art.7) con i proprietari dei diritti.
La relazione della Commissione europea sull’attuazione della direttiva nel suo insieme – gennaio 2001 – non tace permanenti difficoltà e croniche insufficienze: in prima serata la fiction di produzione nazionale ha quasi ovunque il sopravvento, mentre il disavanzo nello scambio di diritti televisivi con gli USA resta vertiginoso (era di circa 3 miliardi di dollari nel 1998). Il meno che si possa dire è che la direttiva non ha provocato i temuti effetti protezionistici: che non erano tra i suoi scopi. Essa voleva – e vuole – solo offrire alle variegate produzioni europee uno strumento in più, perché siano visibili in un’Unione costruita con un minimo di solidale coerenza: nell’economia e nella cultura.
Ti è piaciuto questo articolo? Iscriviti alla nostra newsletter per ricevere altri articoli direttamente nella tua casella di posta.