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Un lungo viaggio – Televisione Senza Frontiere

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- Roberto Barzani è stato portavoce parlamentare per la direttiva “Televisione Senza Frontiere” e il Programma MEDIA. Descrive le fasi dello sviluppo della Direttiva dal 1989, le questioni controverse e altri fattori che hanno giocato un ruolo cruciale nella formulazione di una nuova legge.

L'Eurodeputato Roberto Barzanti ci ha raccontato le fasi della direttiva "Televisione senza Frontiere", i punti controversi e gli interrogativi senza risposta.

Le tappe di un lungo percorso

Roberto Barzanti è stato deputato al Parlamento europeo dal 1984 al 1999 . Nel corso del suo mandato parlamentare è stato vicepresidente dell’Assemblea e presidente della Commissione cultura e informazione. Si è costantemente occupato della regolamentazione delle emittenti radiotelevisive, della politiche per la cultura, dello sviluppo dell’industria cinematografica e audiovisiva, della proprietà intellettuale e del diritto d’autore. E’ stato relatore al Parlamento per la direttiva “Televisione senza frontiere” per il Programma MEDIA e per la direttiva sul diritto d’autore nella prospettiva della società dell’informazione, tuttora in attesa di adozione. Ha coordinato per incarico della FERA (Federazione Europea Realizzatori dell’Audiovisivo) il gruppo di lavoro di esperti per la proposta di una direttiva europea sul cinema e quello per la tutela della diversità culturale.

Ora che si torna a discutere della revisione della direttiva “Televisione senza frontiere” (per essere esatti: della direttiva 89/552/CEE del 3 ottobre 1989, modificata successivamente con direttiva 97/36/CE del 30 giugno 1997) è utile ripensare il contesto in cui nacque e metterne ancora a fuoco gli aspetti più controversi, molti dei quali tuttora al centro del confronto. La proposta fu avanzata dalla Commissione il 30 aprile 1986, ma il dibattito era aperto da tempo. Risale al 1982 una risoluzione parlamentare che chiedeva, con una formula assai confusa e ingenua, di “creare il fondamento politico e giuridico per la realizzazione di un programma televisivo europeo”. Prima ancora si erano avute sentenze della Corte di Giustizia di Lussemburgo che avevano spinto ad interrogarsi su come creare uno “spazio audiovisivo europeo”, soprattutto in vista del completamento del mercato interno.

All’origine della riflessione che porterà, nel 1989, al varo della direttiva stanno molti elementi, che conviene riassumere senza eccessivi scrupoli cronologici. Anzitutto va ricordata la crescente internazionalizzazione del settore, a partire dall’inizio degli Anni Ottanta, dovuta in primo luogo agli sviluppi tecnologici. Con i satelliti a diffusione diretta (DBS) diviene possibile coprire un’area di ricezione molto ampia, e svincolata del tutto da ripartizioni nazionali. La diffusione satellitare in genere ha un ruolo di spicco in mutamenti che non sono solo strumentali, ma incidono nella natura stessa del servizio e nelle modalità della sua regolamentazione.

Parlare di servizio induce subito ad evocare una fondamentale tematica giuridica, che ebbe complessi svolgimenti a seguito della dirompente sentenza Sacchi del 30 aprile 1974. Con essa la Corte di Giustizia qualificava come servizio la comunicazione radiotelevisiva e quindi rendeva applicabili ad essa le norme che il Trattato istitutivo della Comunità prevedeva (agli articoli da 55 a 58 e da 59 a 66) in tema di libera circolazione di servizi: ne derivava la necessità di abolire gli ostacoli che ad essa si frapponevano a causa delle discordanze anche marcate nelle legislazioni degli Stati membri circa – ad esempio – la pubblicità, la protezione dei minori, il diritto di rettifica e il diritto d’autore. Solo armonizzando questi punti al minimo il messaggio televisivo, per sua natura transnazionale, sarebbe stato legittimamente ricevibile e l’emittenza radiotelevisiva avrebbe potuto offrire il suo servizio, da assimilare ad ogni altro prestato su remunerazione. Resta ferma la potestà dei singoli Stati a legiferare in materia dotandosi di un sistema concepito a misura della loro autonoma volontà, ma la Comunità era sollecitata a definire norme concorrenti che creassero un’Europa delle televisioni, in grado di avere un sufficiente grado di reciproca rispondenza e convergente affinità.

Oltre alla rivoluzione delle tecnologie e all’integrazione dei mercati, acquistavano inedita e crescente consistenza problemi di ordine culturale e fondamentali nodi politici. Cooperare nell’ambito della televisione era essenziale per favorire un senso di condivisa appartenenza nei cittadini e contribuire a rafforzare la consapevolezza di un’identità fondata su comuni valori. Economia e idee, informazione e creatività s’ intrecciavano in attività che si rivolgevano sempre di più ad un pubblico non frammentato entro confini regionali.

Si trattava, inoltre, di dar vita a un’Europa capace di governare o almeno di orientare i sistemi misti che andavano nascendo dopo il superamento non simultaneo, ma tendenziale ovunque del monopolio pubblico e l’ingresso massiccio di dinamici soggetti privati. Pur senza obbligare ad un modello, si doveva tentar di imprimere tratti comuni ad un panorama assai vario, ma non dissimile nei lineamenti di fondo. Esistevano problemi enormi di concorrenza leale da rispettare. La risorsa pubblicità non poteva essere allocata a caso e non obbedire a principi e regole in accordo fissati e osservati. Solo una Comunità determinata a perseguire, anche attraverso le televisioni, “un’unione sempre più stretta fra i popoli europei” avrebbe potuto conquistare un ruolo di protagonista sulla scena internazionale, attenuando il patologico deficit che in materia di audiovisivo la distanziava dagli USA e facendo valere una voce nelle trattative commerciali e nella competizione globale.

Le motivazioni che rendevano urgente un intervento normativo derivavano da ragionamenti e impulsi, che contenevano ambiguità e contrasti, potenzialità positive e rischi non banali. Non per questo si poteva rinunciare. Il servizio radiotelevisivo ha una sua complessa specificità. Tra mercato e cultura, del resto, le delimitazioni non sono mai state nette e impenetrabili. Affrontare le questioni da un’angolazione prevalentemente economica non avrebbe impedito di battersi contemporaneamente per salvaguardare la tutela delle lingue e delle sensibilità o di impegnarsi per un servizio pubblico pluralistico e aperto. Né faceva dimenticare la necessità di impedire nei media abusive concentrazioni e dannose posizioni dominanti.

Il testo della direttiva, allegramente battezzata “Televisione senza frontiere”, sarebbe stato il primo, decisivo capitolo di un’azione che doveva porre all’ordine del giorno, con ambizioni egualmente alte, due altri obiettivi strategici per l’ Europa: il sostegno alla produzione dei programmi audiovisivi e delle opere cinematografiche ed un efficace coordinamento nella ricerca e nelle applicazioni delle nuove tecnologie.
L’efficacia dipendeva dall’equilibrata e tempestiva combinazione di queste linee. Il compromesso raggiunto sulle norme provocò qualche insoddisfazione, ma sancì acquisizioni che appaiono tuttora irrinunciabili.

Gli elementi più controversi

La controversia sulle quote è stata da subito il punto di fuoco della direttiva “Televisione senza frontiere” ed è, tuttora, ragione di dispute a non finire. Se prendiamo in esame il testo come sortì dal compromesso dell’ottobre 1989 – trascurando per chiarezza espositiva le poche integrazioni o modifiche apportate nel 1997 – non è difficile rilevare la portata di un atto, che, comunque lo si voglia giudicare, ha innescato accesi confronti, provocando effetti a catena e ricorrenti tensioni. Pochi ricorderanno che la primissima proposta della Commissione puntava più alto, fissando al 60% il tempo di trasmissione da dedicare alle “opere comunitarie” – questa era la dizione usata – “escluso il tempo dedicato ai notiziari, manifestazioni sportive, giochi televisivi, pubblicità o servizi teletext” (art.4): se l’esclusione di questo tipo di programmi è sostanzialmente rimasta identica, al posto della ristretta categoria di “opere comunitarie” si è fatto spazio a quella più comprensiva di “opere europee” e invece del 60% si è impegnata una formula più tenue, invitando le emittenti a concedere alle opere europee “la maggior parte del loro tempo di trasmissione”. Il Parlamento nel corso della sua seconda lettura aveva ribadito, però, che una tale percentuale dovesse essere ottenuta “con appropriati mezzi giuridicamente efficaci”: il che più o meno significa “quote”, pur senza evocare alla lettera un termine così controverso. Ma non solo fu cancellata la stringente formula: gli Stati membri, anziché disporre, avrebbero dovuto vigilare “ogniqualvolta sia possibile e ricorrendo ai mezzi appropriati” sull’effettivo raggiungimento dell’indicazione-invito della Comunità. Non fu una querelle terminologica quella che si svolse nei mesi lungo i quali si snodò la procedura di cooperazione – applicata la prima volta dopo l’entrata in vigore della riforma dell’Atto Unico – che avrebbe portato alla faticosa adozione del compromesso finale. Esso interviene su alcuni aspetti dei sistemi legislativi che reggono l’esercizio dell’emittenza televisiva per renderli armonici: definizioni comuni, promozione delle opere europee con particolare riguardo alla produzione indipendente, principi e percentuali ammissibili di pubblicità con specifico riferimento alle eventuali interruzioni dei film cinematografici, protezione dei minori, diritto di rettifica. L’intera parte sul diritto d’autore fu rinviata a tempi migliori, perché non si riusciva a trovare un minimo di accordo.

Contro chi sostenne fino all’ultimo l’esigenza di prevedere quote cifrate e quindi verificabili si lanciarono le accuse più grevi. Al relatore del Parlamento europeo Carla A. Hills, delegata degli USA per le questioni commerciali, indirizzò una dura lettera di protesta. In molti si scagliarono contro il protezionismo di chi ardiva pensare l’Europa come Fortezza chiusa in se stessa. Fu detto e ripetuto che le quote dovevano essere piuttosto una misura transitoria, un obiettivo da raggiungere con una forte volontà, non una barriera tesa a penalizzare chi deteneva e avrebbe continuato a detenere – un’enorme fetta di mercato. In realtà la distinzione tra protezionismo e protezione, tra guerra commerciale e valorizzazione del pluralistico immaginario europeo non è di immediata evidenza. Equivoci possono insorgere, ma era – ed è – chiaro che la direttiva, la quale oltretutto non si limita a prendere in considerazione, ai fini del calcolo, opere di fiction e non prescrive ovviamente collocazioni orarie, intendeva – come intende – incentivare gli sforzi tesi ad accrescere la circolazione interna di programmi non nazionali, dar spazio alla produzione indipendente (almeno il 10% del tempo di trasmissione o il 10% del bilancio destinato alla programmazione: art.5) e a quella recente (ultimata da non più di cinque anni).

A leggere i rapporti che sono stati predisposti dalla Commissione europea per verificare l’andamento delle cose si constata la fondamentale utilità e la necessitata debolezza di una normativa varata a prezzo di tante polemiche. E’ utile, intanto, che si rilevino, sia pure facendo ricorso a criteri non sempre uniformi e comparabili, le varie situazioni. La quarta comunicazione in materia – luglio 2000 – attesta che l’insieme dei 367 canali sottoposti a esame nel periodo 1997-1998 – ma oggi i canali satellitari o via cavo a potenziale copertura nazionale sono circa 600 – non dà un quadro allarmante. Fatte le debite medie – ciò che talvolta impedisce di individuare i veri punti deboli – solo il Portogallo si trova drammaticamente fuori norma, con il suo 43% di opere europee trasmesse. Nondimeno si fa notare che quando la “proportion majoritaire du temps” – questa la puntuale dizione francese – non è raggiunta, si deve o al fatto che un canale è nuovo o alla sua natura tematica o perché si è di fronte a canali cinematografici. Proprio queste osservazioni fanno comprendere che l’Europa ha il fiato grosso se si tratta di affrontare i processi di innovazione e se la lente di ingrandimento viene focalizzata sul cinema, che trova nella diffusione televisiva una parte decisiva delle sue risorse.

La stessa esistenza della direttiva legittima le connotazioni specifiche di un settore, quello audiovisivo, che anche in sede di accordi commerciali internazionali (prima il GAT sui servizi, quindi le trattative in sede di OMC, Organizzazione Mondiale del Commercio) l’Unione intende considerare nella sua peculiarità. “La cultura – affermò Jacques Delors – non è una merce al pari di ogni altra”. E il cinema meno che mai, anche se nessuno nega la sua distinta collocazione entro un sistema dell’audiovisivo che ha caratteri sempre più multimediali e globali.

Il fatto che le quote non siano imposte non vuol dire – occorre aggiungere - che si tratta di un obiettivo declamato vanamente o di una semplice enunciazione di buoni propositi. Del resto anche altri passaggi della direttiva si riflettono, direttamente o meno, nelle vicende del cinema. Così è per la nozione di opera europea in caso di coproduzione, che sarà tale solo se realizzata “con il preponderante contributo di autori e lavoratori residenti in uno o più Stati europei” (art. 6.3), così per le interruzioni dei “film cinematografici”, consentite secondo certe cadenze (art.11), così per la tutela della cronologia di trasmissione televisiva di un film, che deve rispettare quanto concordato (art.7) con i proprietari dei diritti.

La relazione della Commissione europea sull’attuazione della direttiva nel suo insieme – gennaio 2001 – non tace permanenti difficoltà e croniche insufficienze: in prima serata la fiction di produzione nazionale ha quasi ovunque il sopravvento, mentre il disavanzo nello scambio di diritti televisivi con gli USA resta vertiginoso (era di circa 3 miliardi di dollari nel 1998). Il meno che si possa dire è che la direttiva non ha provocato i temuti effetti protezionistici: che non erano tra i suoi scopi. Essa voleva – e vuole – solo offrire alle variegate produzioni europee uno strumento in più, perché siano visibili in un’Unione costruita con un minimo di solidale coerenza: nell’economia e nella cultura.

Interrogativi senza risposta

L’appuntamento per una proposta di revisione sistematica della direttiva “Televisione senza frontiere” era – anzi è – fissato per il dicembre 2002, ma gli interrogativi sul da farsi si sono infittiti al punto da consigliar di predisporre alcuni studi preliminari sui problemi più spinosi. Infatti tra le tre opzioni possibili (modifica radicale e immediata, ritocchi di superficie, programma di lavoro in vista di un testo nuovo) si è scelta la terza strada, la più lunga e ambiziosa. Va bene se porterà rapidamente ad una revisione sostanziale e pertinente.

Alcuni parlarono nel 1997 di revisione mancata per la direttiva che 1997: invece di modificarla incisivamente e ampliarne le implicazioni furono aggiunte al testo di partenza alcune parti, che l’hanno reso più attuale e comprensivo senza però innovarlo in profondità. Si stabilì, ad esempio, che dovessero essere trasmessi in chiaro avvenimenti eccezionalmente seguiti perlopiù di agonismo sportivo – sulla base di elenchi elaborati dagli Stati membri – e si auspicò un rafforzamento delle misure a tutela dei minori anche avviando studi su dispositivi atti a filtrare intelligentemente i programmi.

Molti interrogativi rimasero senza risposta: oggi conviene ripartire da lì, da quanto è rimasto in sospeso in quell’intenso dibattito. Di cruciale importanza sono le definizioni che la direttiva prospetta: quella di “trasmissione televisiva” è meno ovvia di quanto si potrebbe credere. Così com’è copre le varie tipologie fino alla video on demand , esclusa perché attivata dalla volontà di un singolo e quindi non rivolta indifferentemente al pubblico. Ma basta questo fatto per non dare connotato di pubblico – potenziale – a quanti attingono ad una fonte di loro gradimento per scegliersi l’oggetto del desiderio? Non si riuscì allora a sancire i parametri da impiegare per l’individuazione del “produttore indipendente”. Inoltre non fu formalmente chiarito il concetto di televisione tematica: necessario se si vogliono prescrivere per tale tipo di imprese obblighi diversi dalle quote di programmi europei, quali la destinazione ad essi di una certa cifra di bilancio. Non sono previste nell’attuale testo misure tese alla promozione delle opere.

In breve: si dovrebbe estendere il campo d’applicazione della direttiva se non all’intero settore dell’audiovisivo almeno a tutti i nuovi servizi comparabili con quelli più tipici dell’emittenza televisiva. Dir questo significa enunciare un problema di difficilissima soluzione: eppure è questo il tema in campo. La diffusione in rete in tutte le sue forme, che pure coinvolge l’audiovisivo nei suoi molti aspetti, ha una natura tale che è impossibile investirla di obblighi o obiettivi uniformemente penetranti come quelli pensati per la direttiva. Allargarne a dismisura i confini vuol dire in realtà rinunciare a intervenire in modo puntuale e quindi a trarre dall’impegno normativo qualche apprezzabile, e verificabile, risultato. L’impianto che nacque nel 1989 fu pensato per una televisione generalista, sconvolta dall’irruzione del satellite a trasmissione diretta e dall’ingresso sul mercato di operatori privati. Da allora le trasformazioni sono state vertiginose. E’ lecito chiedersi: si può tentar di aggiornare una direttiva di questo genere fino a renderla più adeguata per i fini che si proponeva o deve essere interamente riscritta, da cima a fondo, perché affronti l’audiovisivo nella sua multimediale complessità di formati? E’ allora opportuno introdurvi capitoli su principi etici condivisi e su questioni già regolamentate orizzontalmente quali il diritto d’autore? E le quote europee di cui tanto si discusse e si discute quale collocazione potranno avere in un’architettura tanto slargata? E la distribuzione del messaggio pubblicitario, anch’esso diffuso in modalità tanto varie come si potrà governare? Le domande potrebbero moltiplicarsi e finirebbero per accrescere incertezze e dubbi.

La consultazione di fatto è già iniziata e non riguarda soltanto gli addetti ai lavori. Anzi: sarebbe un errore irreparabile darle un connotato settoriale o corporativo. Probabilmente la prospettiva più convincente è quella più realistica: che si prefigga non di regolamentare tutto, ma di tenersi all’essenziale, non dimenticando che in mezzo al grande oceano delle immagini e dei suoni nel quale siamo immersi esiste un’emittenza televisiva – pubblica e privata – che è tenuta a osservare indirizzi e regole di interesse generale. Sembrerà strana questa riflessione sulla necessità di non avere ambizioni troppo alte da parte di chi ritiene che un governo ci deve essere a garanzia di diritti fragili e espressioni culturali a rischio. Il fatto è che, spesso, si ascoltano troppe argomentazioni declinate per dimostrare che i confini si sono ormai annullati e che quindi si è vanificata qualsiasi ipotesi di orientare o indirizzare o governare. Non c’ è nulla di scandaloso se ci si batte perché intanto continui ad essere sottoposto ad alcune regole, non punitive né anacronistiche, un comparto che, a ben vedere, residuale non è diventato e centrale continuerà ad essere per molti e molti anni.

Il contesto nuovo che si delinea, con la costituzionalizzazione di principi quali la diversità nelle culture e il pluralismo nell’informazione, proclamati nella Carta di Nizza, offre spunti non secondari per affrontare questa fase nuova con lena e con entusiasmo.
Ciò che ha detto la commissaria Viviane Reding più volte induce a sperare e incita a riprendere serie iniziative di proposta. I tre studi intrapresi in vista della eventuale revisione vertono sull’efficacia delle quote (ancora!), sull’evoluzione tecnologica e sulle nuove tecniche di pubblicità. Si tratta sicuramente di questioni di sostanza. In ultima analisi le conclusioni li travalicheranno: uno spazio audiovisivo europeo nel quadro della crescente globalizzazione è più necessario che mai, e sarà differentemente – con maggiore o minore intensità – regolamentato secondo gli sviluppi economici, le dimensioni di mercato, l’applicazione delle tecnologie. I caratteri degli ambiti in cui si articola. Una direttiva mirata, rivista e rafforzata quanto basta, conserverà intatta la sua efficacia, anche se non potrà essere un’illusoria direttiva tuttofare.

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